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Novità giurisprudenziali 1 marzo 2018, a cura di Monica Serra.

15.03.2021 | News

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– QUALIFICAZIONE DELLE CONDOTTE VESSATORIE DEL DATORE DI LAVORO –

Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ord. 16 febbraio 2018 n. 3871

Con questa recente pronuncia la sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha preso una netta posizione in tema di mobbing, affermando che anche laddove le condotte datoriali denunciate dal lavoratore non possano essere qualificate come tali perché carenti di intento persecutorio, il giudice deve comunque valutarle al fine di verificarne l’eventuale illiceità

In questo caso, infatti, il giudice di merito aveva respinto la domanda di una lavoratrice che chiedeva il risarcimento dei danni da mobbing in quanto non aveva rilevato alcun intento persecutorio  nelle condotte datoriali. Tuttavia la Corte di Cassazione, riprendendo alcune recenti pronunce, ha confermato il dovere del giudice di valutare i singoli comportamenti che il lavoratore indica come produttivi di danno da risarcire, e ciò verificandone l’eventuale illiceità nei limiti di cui al petitum e alla causa petendi.

Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 19 febbraio 2018 n. 3977

Secondo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione in tema di condotte vessatorie, la diversa qualificazione della domanda del lavoratore da parte del giudice non comporta un vizio di ultrapetizione della sentenza.

La questione trae infatti origine da un caso in cui il giudice aveva indicato come straining invece che come mobbing le condotte denunciate da una dipendente. Sul punto la Corte ha ribadito il principio di cui anche all’ordinanza n. 3971/2018 (contenuta anche nella newsletter di questa settimana) secondo cui il giudice ha tra le sue prerogative la possibilità e il dovere di qualificare giuridicamente la domanda in modo diverso o porre a fondamento della sua decisione delle valutazioni giuridiche che siano diverse da quelle prospettate dalle parti.

– INTERPOSIZIONE FITTIZIA DI MANODOPERA –

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 7 febbraio 2018 n. 2990

Secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in caso di interposizione fittizia di manodopera, il datore di lavoro effettivo che rifiuti le prestazioni dei lavoratori è obbligato a corrispondere agli stessi comunque la retribuzione.

La questione del diritto al pagamento delle retribuzioni nel caso di accertamento di somministrazione illecita è stata portata all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno pronunciato un importante principio di diritto, secondo cui “ove venga accertata l’illegittimità dell’interposizione di manodopera e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’’ultimo di corrispondere le retribuzioni”.

Con questa pronuncia, peraltro, la Corte ha confermato che le eventuali retribuzioni già percepite e i contributi versati dal datore di lavoro interposto anche dopo la sentenza liberano il vero datore di lavoro fino alla concorrenza delle somme effettivamente pagate.

– LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO –

Tribunale di Latina, sezione Lavoro, sentenza 8 febbraio 2018

Il Tribunale di Latina dà seguito all’orientamento prevalente in tema di motivazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e dichiara l’inefficacia del recesso intimato con motivazione talmente generica da risultare inidonea a consentire al lavoratore di comprendere le effettive ragioni di carattere economico-organizzativo alla base della decisione.

In punto di conseguenze il Tribunale di Latina ha applicato le regole di diritto comune in ragione delle dimensioni dell’impresa che risultava avere meno di quindici dipendenti e pertanto, considerata l’inefficacia del recesso per assoluta carenza della motivazione richeista, ha affermando l’inidoneità di questo ad incidere sulla continuità del rapporto e il conseguente diritto del lavoratore a percepire a titolo di risarcimento del danno tutte le retribuzioni maturate dal recesso all’effettivo ripristino del rapporto.

– ASSEMBLEA NEI LUOGHI DI LAVORO, PUBBICO IMPIEGO –

Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 8 febbraio 2018 n. 3095

Con riguardo al diritto di assemblea sindacale nel luogo di lavoro, nell’ambito del pubblico impiego la convocazione non può avvenire ad istanza del singolo componente di R.S.U.

Sul punto, infatti, un sindacato nazionale aveva chiesto giudizialmente la dichiarazione di antisindacalità del comportamento di una ASL che non aveva acconsentito a che si svolgesse una assemblea interna indetta dal singolo componente della R.S.U. anziché dalla rappresentanza tutta.

Sia i giudici di merito che di legittimità hanno dato torto al sindacato, e con ciò procedendo a una analisi della normativa di legge anche collettiva in relazione alle attività e alle prerogative sindacali nel pubblico impiego. La normativa in tema è infatti stata ritenuta speciale rispetto a quella dell’impiego privato e soprattutto diversa riguardo al tema della legittimazione ad indire le assemblee di cui all’art. 20 dello Statuto dei Lavoratori che è in capo all’organismo rappresentativo unitariamente inteso. Questo, inoltre, deve esercitare tale prerogativa secondo il regolamento eventualmente adottato o, in sua mancanza, a maggioranza dei componenti.

– LICENZIAMENTO COLLETTIVO E LAVORATRICE IN GRAVIDANZA –

Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 22 febbraio 2018, causa C-103/2016 – Porras Guisado

Non è in contrasto con il diritto dell’Unione Europea la normativa nazionale che autorizzi il licenziamento della lavoratrice gestante nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo.

Come precisato dalla Corte, infatti, il diritto dell’Unione Europea stabilisce il divieto di licenziamento delle lavoratrici dall’inizio della gravidanza al termine del congedo di maternità, salvo che vi siano casi eccezionali non connessi al loro stato e che – se ammessi dalla legislazione nazionale – siano specificati nella lettera di licenziamento.

Uno di questi casi può proprio essere il licenziamento collettivo, a condizione che si possano riscontrare i criteri oggettivi adottati nella scelta dei lavoratori da licenziare.

Infine, secondo la Corte ciò può comunque essere legittimamente contrastato da normative nazionali che eventualmente prevedano protezioni più intense per le lavoratrici nel periodo di gravidanza, maternità o allattamento anche in caso di licenziamento collettivo

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