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Il processo del lavoro dopo la c.d. Legge Fornero – Prime riflessioni e rilievi critici

18.03.2021 | Pubblicazioni

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Chiara Vannoni – Avvocato Giuslavorista in Milano, ottobre 2012

La c.d. Legge Fornero (L. 28 giugno 2012, n° 92) investe non solo la tematica e la disciplina dei licenziamenti ma numerosi aspetti del rapporto di lavoro (tra gli altri, lavoro a tempo determinato, contratto a progetto, ammortizzatori sociali); di certo però l’impatto immediato più rilevante e maggiormente controverso riguarda la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e l’introduzione di un nuovo procedimento che si aggiunge al “classico” rito del lavoro.
In particolare, per quanto concerne le disposizioni in materia di “flessibilità in uscita” si nota immediatamente che, oltre a rilevanti novità sostanziali – cioè differenti ipotesi e tipologie di licenziamenti tipizzati dal legislatore, da quello disciplinare, discriminatorio al controverso provvedimento economico – si inserisce anche un nuovo, ulteriore procedimento che si affianca al rito del lavoro già noto.
I caratteri di questo nuovo procedimento, la cui disciplina è contenuta nei commi da 48 a 68 dell’art. 1 della Legge 92, sono – come era prevedibile – già oggetto di dibattito: si cercherà quindi di tentare una breve analisi in attesa che si formino primi orientamenti e prassi giurisprudenziali.

Dal diritto sostanziale a quello processuale: il nuovo rito per i licenziamenti sottoposti al regime dell’art. 18, introdotto con la L. 92/2012.
Come sopra accennato, uno dei temi principali della riforma Fornero è sicuramente racchiuso nel nuovo testo dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, che – fermo restando il requisito numerico dei 15 addetti – per il resto è stato completamente rivisto con contenuti che non brillano per chiarezza espositiva né consentono una comprensione immediata delle varie fattispecie di licenziamento che ora si prospettano (e alle quali fanno seguito diverse conseguenze).
In aggiunta a ciò è stato introdotto un procedimento ad hoc per i soli licenziamenti sub art. 18 Statuto.
Per quanto concerne i nuovi aspetti sostanziali si osserva che le conseguenze del licenziamento intimato dal datore di lavoro con più di quindici dipendenti sono ora differenti e modulate a seconda del “grado” di illiceità del provvedimento medesimo. Senza qui entrare nel dettaglio, si rileva che la tutela reintegratoria “piena” (assimilabile cioè a quella prevista dal vecchio testo dell’art. 18) è ora residuale, e riguarda i soli casi di nullità del provvedimento, perché determinato da ragioni discriminatorie ovvero, comunque, dettate da un motivo illecito determinante ex art. 1345 cod.civ. (v. prime riflessioni di A. Rosiello, Gli effetti del licenziamento discriminatorio nella disciplina esistente e nelle prospettive di riforma, in Pianeta lavoro e tributi, n° 7/2012).
Le ulteriori ipotesi di illegittimità del provvedimento datoriale (perché carente del motivo addotto, sia esso soggettivo per l’ipotesi riconducibile al licenziamento disciplinare ovvero oggettivo) sono sanzionate con una tutela economica alla quale si affianca, nei casi di licenziamento per giusta causa, anche la reintegrazione. Anche la tutela economica varia a seconda della fattispecie di licenziamento, per cui in ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo dichiarato illegittimo la forbice di riferimento è tra le 12 e le 24 mensilità, mentre nel caso di “sola” inosservanza delle procedure disciplinari o omessa comunicazione alla DTL, l’indennità spettante è – paradossalmente – contenuta tra le 6 e le 12 mensilità.

Come detto però sembra utile rinviare l’analisi dettagliata delle nuove fattispecie di licenziamento ex art. 18 nuovo testo, per procedere ora con una breve analisi dell’altra, importante novità introdotta dalla L. 92/2012, cioè il rito speciale per i soli licenziamenti ricompresi tra le ipotesi dell’art. 18 (suggeriamo di abituarci a non parlare più semplicemente di “tutela reale” contrapposta alla “tutela obbligatoria” viste le varie sfaccettature che ha ormai assunto l’art. 18).
Il nuovo rito speciale per le controversie in materia di licenziamenti. Le varie fasi del procedimento.
Il nuovo rito è ispirato a esigenze di celerità nella trattazione e rapidità nella decisione, in modo da evitare alcune derive verificatesi nel passato, laddove ci si trovava a discutere di licenziamento (e reintegrazione) a distanza di anni dall’evento, con ricadute negative sia per l’efficienza della giustizia, sia dal punto di vista dell’impatto economico che tale situazione aveva sulle parti.
In realtà, già il c.d. “Collegato Lavoro” aveva contribuito all’accelerazione dei procedimenti in materia di licenziamenti, con l’introduzione – in tutti i casi di licenziamento e a prescindere dal requisito dimensionale – del termine decadenziale di 270 giorni dall’impugnazione del provvedimento, termine entro il quale era necessario depositare il ricorso.
Tale termine resta ora fermo per i licenziamenti intimati in ambito di aziende con meno di 15 dipendenti, mentre per quelle che superano tale numero è ora ulteriormente ridotto: infatti, ai sensi del nuovo testo dell’art. 6, L. 604/1966 il ricorso deve essere depositato entro il termine (a pena di decadenza) di 180 giorni. A ciò si aggiunge il nuovo rito per i soli licenziamenti regolati dall’art. 18 L. 300/1970 nella sua nuova formulazione.
Il nuovo rito (descritto nei commi 47 – 68 dell’art. 1, L. 92/2012) riassume in sé alcuni caratteri tipici dei procedimenti cautelari (l’urgenza, la riduzione notevole dei termini), pur risultando un procedimento di merito ulteriormente speciale rispetto al rito del lavoro “ordinario”.
Per quanto riguarda i termini, questi sono ora davvero contingentati non solo per quanto concerne le decadenze per il deposito dei ricorsi, ma altresì per le fissazioni delle udienze, costituzioni delle controparti e trattazioni da parte dei giudici.
Infatti, “il giudice fissa l’udienza non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso”, assegnando un termine per la notifica dell’atto e del decreto di fissazione dell’udienza “non inferiore a venticique giorni prima dell’udienza”; la controparte potrà poi costituirsi in giudizio entro il termine di cinque giorni dall’udienza. Per ovviare alla brevità dei termini, soprattutto per quanto concerne l’attività di notificazione (che come ben sappiamo è ancora molto difficoltosa per le oggettive carenza degli uffici notifiche), il legislatore ha previsto la possibilità di procedere alla notifica tramite posta elettronica certificata.
Alla prima udienza fissata per la comparizione delle parti, il giudice procede omettendo ogni formalità non essenziale al contraddittorio, eventualmente ammettendo i mezzi di prova richiesti dalle parti o disposti d’ufficio ai sensi del ben noto art. 421 cod.proc.civ. (chiedendo, ad esempio, produzione di documentazione ulteriore) e provvede sulla domanda con ordinanza immediatamente esecutiva.
Questa, sommariamente, la prima fase del nuovo rito. Dal punto di vista tecnico, la domanda del ricorrente deve essere introdotta con ricorso “avente i requisiti di cui all’art. 125 cod.proc.civ”, ovvero i requisiti ed elementi minimi comuni sia al ricorso che all’atto di citazione ovvero a qualunque atto depositato in un giudizio. Nulla dice tale articolo (né è previsto come requisito minimo) sul se e come formulare istanze istruttorie: appare opportuno però non discostarsi dalla redazione “classica” del ricorso ex art. 414 cod.proc.civ., indicando direttamente tutti i mezzi di prova (specialmente orali) dei quali si intende fare istanza, per evitare di incorrere in decadenze o anche solo eccezioni di controparte. Questa indicazione prudenziale si fonda anche sulla lettura dell’art. 1, comma 49 L. 92/2012 laddove indica che “il giudice…procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti”: pertanto, tali richieste dovrebbero già essere contenute nell’atto introduttivo non solo per evitare di incorrere in decadenze o eccezioni, ma anche per consentire al giudice di valutarne la rilevanza anche alla luce delle difese della controparte.
L’ordinanza che decide questa prima fase non è soggetta né a sospensione né a revoca, potendo essere modificata (ed eventualmente sostituita) dalla sentenza con cui viene decisa la seconda fase del giudizio.
L’ordinanza che conclude la fase sopra descritta può essere impugnata, ma in assenza di impugnativa diviene l’unico e definitivo provvedimento che decide in punto di licenziamento.
L’impugnazione avviene con proposizione di un ricorso in opposizione alla decisione avanti al medesimo Tribunale che ha emesso il provvedimento impugnato: con il ricorso non possono essere proposte domande nuove, salvo quelle fondate sui medesimi fatti costitutivi (non dovrebbero dunque trovare spazio, nel rito in esame, domande di risarcimento danni da demansionamento ovvero da condotta vessatoria; potranno essere per contro esposti i fatti vessatori in quanto funzionali all’illustrazione dei motivi di illegittimità del recesso): una lettura aderente allo spirito del rito speciale per i licenziamenti, anche rispettosa della disposizione del comma 56 sulle domande riconvenzionali, apre d’altro canto la strada ad una triplicazione dei ricorsi (rito speciale, fase di opposizione, domanda separata per altre domande).
Il ricorso in opposizione deve essere depositato a pena di decadenza entro trenta giorni “dalla notificazione del provvedimento o dalla comunicazione, se anteriore” (ancora una volta, i tempi vengono decisamente contingentati con la previsione della più grave tra le “sanzioni”); ancora, il giudice fissa l’udienza da tenersi non oltre i sessanta giorni successivi, con termine per la costituzione del convenuto fino a dieci giorni prima dell’udienza (come nel normale rito di lavoro). Anche in questo caso è prevista la possibilità di notificare l’atto e il decreto di fissazione udienza con l’ausilio della posta elettronica certificata entro i trenta giorni prima dell’udienza.
Da qui in avanti il rito previsto per i licenziamenti sembra ricalcare in tutto e per tutto il rito del lavoro (con medesimi regimi di preclusioni e decadenze, per esempio per la chiamata del terzo e la domanda riconvenzionale); particolarità di rilievo è che, nel caso in cui la domanda riconvenzionale non sia fondata sui medesimi fatti costitutivi posti alla base della domanda principale, il giudice ne dispone la separazione.
Nuovamente è previsto che il giudice proceda “nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti nonché disposti d’ufficio..” e provvede con sentenza, che deve essere depositata – completa di motivazione – entro dieci giorni dall’udienza di discussione.
La sentenza che ha deciso la domanda sulla opposizione all’ordinanza (di fatto, dichiarando legittimo o illegittimo il licenziamento e, in questo caso, applicando le tutele previste a seconda delle ipotesi) è soggetta ad appello avanti alla Corte di Appello, nella forma del reclamo, da depositarsi entro trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento o dalla sua notificazione (al solito, i termini decorrono dalla forma di comunicazione che per prima ha consentito la conoscenza del provvedimento). Come per la “seconda fase” del giudizio di primo grado, la Corte di Appello fissa nei successivi sessanta giorni, con onere di notifica in capo al ricorrente (reclamante) entro i trenta giorni precedenti la data dell’udienza; ancora, restano invariati i consueti termini di costituzione per il convenuto cioè i canonici dieci giorni prima dell’udienza.
Al pari di quanto avveniva già in precedenza, non sono qui ammessi nuovi mezzi di prova salvo che il Collegio non ne rilevi l’indispensabilità e salva l’impossibilità per la parte di produrli in primo grado (con onere di prova a suo carico). Anche in questo caso, viene previsto un termine di dieci giorni per il deposito della sentenza completa di motivazione, in modo da consentire un altrettanto tempestivo giudizio di Cassazione (naturalmente se necessario): tale giudizio deve svolgersi “non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso”.
Considerata la particolare tempestività dei termini, assolutamente ridotti e contingentati, il legislatore ha altresì disposto che alle controversie regolate dai commi 47 a 64 siano dedicati e riservati particolari giorni nel calendario delle udienze.

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Infatti, il nuovo procedimento così cadenzato è riservato alle sole controversie in materia di licenziamento con applicazione dell’art. 18 L. 300/1970 come risultante dalle ultime modifiche, instaurate dopo l’entrata in vigore della L. 92/2012 e pertanto dal 18 luglio 2012.
Sembra pacifico, o per lo meno questo è quanto emerge dai primi confronti informali tra magistrati e avvocati, che lo spartiacque del 17 luglio 2012 valga solo per quanto riguarda il rito e non anche per quanto concerne la disciplina sostanziale; pertanto, per un licenziamento rientrate tra le ipotesi di art. 18 intimato prima del 18 luglio 2012 si dovrà seguire il nuovo procedimento, con applicazione però dal punto di vista sostanziale della “vecchia norma” (cioè la ben nota, per oltre quarant’anni, tutela reintegratoria).
Tale conclusione appare ovvia muovendosi da due aspetti fondamentali. Da un lato, prettamente formale e letterale, il comma 67 dell’art. 1, L. 92/2012 dispone che “I commi da 47 a 66 (e non da 42 a 66 n.d.r.) si applicano alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”: il comma 47 testualmente richiamato prevede appunto che “le disposizioni dei commi da 48 a 68 (sul rito che abbiamo illustrato) si applicano alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18, L. 20 maggio 1970, n. 300…”.
Oltre a questo dato letterale e testuale, si pone a sostegno della conclusione indicata il principio generale vale il principio tempus regit actum in base al quale, in assenza di un’espressa disciplina transitoria o di norme contrarie, l’atto di licenziamento soggiace alle regole esistenti al tempo in cui è stato adottato. Questo in base all’art. 11 delle preleggi per il quale “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”, non meno che in base agli artt. 3 e 25 Cost.. Si verificherebbe infatti un grave vulnus del principio di uguaglianza e di ragionevolezza se lavoratori licenziati prima dell’entrata in vigore della legge vedessero diminuite le proprie tutele.

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Di certo il nuovo procedimento sta già facendo molto discutere anche sull’opportunità di introduzione di termini così stringati dal momento che già il Collegato Lavoro del 2010 aveva imposto una nuova celerità in materia di ricorsi di lavoro e relativamente a spefiche materie, tra cui i licenziamenti.
Dal punto di vista pratico, come sopra già indicato sembra che il ricorso introduttivo della prima fase finirà con l’avere le medesime caratteristiche di un ordinario ricorso ex art. 414, se non altro per la necessità – non evidenziata dal legislatore della riforma ma desumibile dalla cadenza delle udienze – di indicare i mezzi di prova. Diversamente, come osservato, ci si esporrebbe se non a preclusioni e decadenze (la legge nulla dice in proposito e in effetti richiama tout court l’art. 125 del codice di procedura civile), quantomeno a eccezioni che potrebbero determinare difficoltà ulteriori soprattutto in questi primi mesi di applicazione pratica.
Sempre dal punto di vista pratico, invece, non è ancora dato sapere (e non risulta vi siano già state udienze con il nuovo rito) quale sarà l’orientamento dei giudici, cioè se i magistrati riterranno l’udienza della prima fase quale “udienza unica”, da cui discenderebbe la necessità ad esempio di convocare per quell’udienza anche gli eventuali testimoni o comunque le persone delle quali si chiede l’audizione e l’escussione ovvero se residui la possibilità per il giudice di rinviare ad altra udienza e riservarsi il provvedimento.
Una prima, più rigorosa lettura dovrebbe condurre a ritenere che quantomeno la prima fase si tenga in una sola udienza, o eventualmente in due molto ravvicinate per dare modo di convocare persone informate e testimoni, ma che poi la decisione debba essere contestuale: questo, se si vuole effettivamente valorizzare l’impronta di particolare rapidità voluta dal legislatore per i licenziamenti sottoposti al nuovo articolo 18.
Ancora, resta il dubbio, di fronte alla previsione di una tale così celerità per queste controversie, quale sarà il destino di altre tipologie di controversie di lavoro, non rientranti sotto il “cappello” dell’art. 18: si pensi a controversie relative a demansionamento, differenze retributive, condotte vessatorie e risarcimento del danno, situazioni che spesso si accompagnano al provvedimento espulsivo e anzi ne costituiscono l’antefatto, ma che alla luce della nuova norma processuale dovrebbero restare escluse da una (che invece sarebbe certamente più opportuna) trattazione congiunta.
Si ritiene naturalmente, vista la novità della normativa e il grande interesse che suscita, che si continuerà e riflettere e discutere, in vista di nuovi equilibri e migliori sviluppi.

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