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La felicità al lavoro conta – Il fatto quotidiano – di Annalisa Rosiello e Chiara Vannoni 12 giugno 2019

22.03.2021 | Pubblicazioni

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La recente notizia del varo, in Nuova Zelanda, di una legge di bilancio incentrata sul benessere dei cittadini ha suscitato attenzione e ammirazione: per la prima volta un Paese punta così esplicitamente su un obiettivo – l’Obiettivo – così centrale per un essere umano: il benessere, la realizzazione del proprio scopo, la felicità.

L’equivalente di 2 miliardi di euro di fondi extra serviranno a contrastare “dipendenze” e patologie quali ansia e depressione, ad inserire uno psicologo in ogni ambulatorio di medicina di base, a prevenire i suicidi (che crescono ogni anno). Inoltre verranno destinati al contrasto della violenza domestica e della povertà infantile, agli aiuti ai senzatetto, alle minoranze, alle comunità indigene e alla ricerca contro il global warming.

Evidentemente, e per fortuna non solo in Nuova Zelanda, la salute mentale e la rilevazione del disagio delle persone è un indicatore che comincia a contare “oltre il Pil”.

Purtroppo come sappiamo, spesso è proprio il lavoro (o l’assenza di lavoro) a causare i disagi più profondi nelle persone.

Sempre di questi giorni è la notizia dell’inserimento dello stress, o – più precisamente – del burnout nella lista della Classificazione internazionale delle sindromi di natura fisica o psichica elaborata  dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).

In estrema sintesi il burnout è classificato come “fenomeno professionale” e non come condizione medica; esso è infatti inquadrato all’interno del capitolo “Fattori che influenzano lo stato di salute o il contatto con i servizi sanitari”. Il burnout è definito nell’ICD (International Classification of Diseases) così: “Il burnout è una sindrome derivante dallo stress cronico sul posto di lavoro, non gestito con successo. È caratterizzato da tre dimensioni: 1) sentimenti di svuotamento o esaurimento energetico; 2) maggiore distanza mentale dal proprio lavoro, sentimenti di negativismo o cinismo relativi al proprio lavoro; e 3) ridotta efficienza professionale. Si riferisce specificamente ai fenomeni nel contesto lavorativo e non dovrebbe essere applicato per descrivere esperienze in altri ambiti della vita”.

Questa sindrome colpisce maggiormente le persone impegnate in professioni di aiuto, nel sociale, nella gestione delle emergenze, come per esempio personale ospedaliero, assistenti sociali, vigili del fuoco, ecc.; ma può riguardare anche altre categorie di lavoratori e, in particolare, quelli che hanno anche importanti carichi familiari. Le donne, che hanno spesso, ancora oggi, il doppio/triplo carico lavoro-figli-parenti anziani, sono tra le più colpite.

Sentimenti simili rispetto al lavoro possono tuttavia essere innescati anche da rapporti conflittuali con i colleghi, competizione spinta, pettegolezzo o malignità che fanno da sottofondo in ufficio, isolamento dal gruppo di lavoro,  svuotamento di mansioni, turni sempre differenti, scarsa definizione del ruolo, molestie sessuali. Da queste situazioni, come noto, possono derivare, e spesso derivano, vere e proprie patologie (ansia, depressione, somatizzazioni di vario tipo).

La legislazione della sicurezza (Tu 81/2008, art. 2, lett. o), nella definizione di salute (mutuata dall’OMS che l’ha elaborata fin dal 1948), parla di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in assenza di malattia o d’infermità”.

E anche la legge finanziaria del 2018 impone l’adozione di tutte le misure più efficaci per la promozione del benessere e per il mantenimento, all’interno dei luoghi di lavoro, di un clima rispettoso della dignità, della libertà (anche sessuale), delle corrette relazioni, dell’eguaglianza (v. art. 26, comma 3 ter Decreto Legislativo 198/2006).

Esistono numerose altre leggi, disposizioni e prassi che vanno in questa direzione, anche nel nostro paese, ed è centrale il ruolo anche del sindacato nel sollecitare le imprese ad adottare codici e comportamenti improntati al benessere; solo un lavoro “sano”, infatti, consente la realizzazione piena dell’essere umano all’interno di una delle “formazioni sociali” più importanti, il luogo di lavoro, dove l’individuo si completa e si realizza sia professionalmente che moralmente.

E’ quindi importante il riconoscimento esplicito del burnout come fenomeno lavorativo e non solo come condizione medica, perché dovrà condurre le aziende a aumentare l’attenzione su questo fenomeno, segnatamente nella fase dell’obbligatoria valutazione di tutti i rischi, incluso lo stress.

Il percorso da fare in questa direzione è però ancora lungo, e dovrebbe passare da una legislazione coraggiosa e sempre più volta a promuovere la salute e prevenire lo stress, potenziando innanzitutto gli obblighi del datore di lavoro di adottare, a condizioni di ragionevolezza, misure volte a favorire la conciliazione vita-lavoro e a tutelare altre categorie “vulnerabili” (lavoratori in età avanzata, lavoratori stranieri, caregiver) nel pieno rispetto di quanto prevede l’art. 3, comma 2° della costituzione.

Auspichiamo che nei prossimi interventi legislativi, magari nella prossima finanziaria, si riuscirà a lavorare maggiormente sul benessere e sulla felicità dei cittadini.

Riusciremo a seguire l’esempio della Nuova Zelanda?

Qui il linl all’articolo pubblicato su ilfattoquotidiano.it

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