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Mobbing: il danno e la qualificazione dei fatti secondo un recente orientamento della Cassazione

19.03.2021 | Pubblicazioni

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di Carlo Facile, dicembre 2015

Premessa

Il rapporto di lavoro subordinato è quel legame tra i soggetti contraenti un patto, dal quale non deriva solo la messa a disposizione delle energie lavorative di uno a fronte di un corrispettivo economico offerto dall’altro; sappiamo bene che tale rapporto è connotato da ben altre obbligazioni legali e contrattuali, che riguardano l’organizzazione del lavoro stesso e in generale gli aspetti di gestione e le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, così come richiesta al lavoratore.

Inoltre, si passa gran parte della vita a lavorare e, per la maggior parte dei dipendenti, quasi ogni giorno è speso presso il datore di lavoro e in relazione con esso, sia che si tratti di un imprenditore persona fisica, sia che si tratti di persone fisiche che rappresentano un ente giuridico e che per esso agiscono.

Soprattutto dal punto di vista del singolo lavoratore, quindi, spesso assumono particolare importanza anche i comportamenti del datore di lavoro in quanto tali e, comunque, per come essi vengono percepiti.

Sarà anche per queste considerazioni, seppure generalissime, che nel corso del tempo abbiamo visto aumentare controversie giudiziarie nelle quali si tratta pure (o addirittura solo) di mobbing, ovvero dei comportamenti datoriali ritenuti scorretti e che hanno ripercussioni dirette sullo stato emotivo, psicologico e fisico del lavoratore traducibili anche in termini di danno biologico.

Vero è che tutto sembra per finire con l’essere ricompreso nel mobbing quando, curiosamente, in realtà nemmeno esiste una vera e propria definizione univoca e, specialmente, di matrice legislativa del fenomeno.

Così, anche dal punto di vista delle domande poi concretamente formulate ai giudici di merito, quello che viene presentato come mobbing può essere riconosciuto solo (si fa per dire, ed esemplificando) come demansionamento e viceversa.

Una recente pronuncia della Cassazione in tema di mobbing

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 22635 del 5 novembre 2015) ha trattato il caso di un lavoratore che ha effettivamente chiesto al Tribunale di accertare il mobbing perpetrato in suo danno dalla società datrice di lavoro, avendo qualificato come tale la pressoché totale privazione delle mansioni che egli svolgeva; conseguentemente, lo stesso lavoratore ha chiesto il risarcimento del danno professionale e di quello biologico.

I giudici di merito hanno poi accolto le richieste del lavoratore (con un danno biologico del 15%) non sull’accertato presupposto che egli fosse stato mobbizzato, ma per il demansionamento documentato e dimostrato e che – di per sé – era stato descritto dal dipendente giusto per dare contenuto alla prospettazione sul mobbing (che forse pareva fornire maggior pregio alla domanda).

La soccombente è ricorsa per cassazione contestando, tra le altre cose, proprio tale apparente incongruenza tra il richiesto e il pronunciato.

 

Definizione giurisprudenziale di mobbing

Ebbene, innanzi tutto è opportuno ricordare – come è stato fatto anche nella sentenza citata – cosa la giurisprudenza intenda per mobbing, vale a dire in sintesi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso causale tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Ciò premesso, i giudici di legittimità, da parte loro, hanno osservato che “esclusa la sussistenza dell’intento vessatorio e persecutorio, rimane giuridicamente valutabile, nell’ambito dei medesimi fatti allegati e delle conclusioni rassegnate, la condotta di radicale e sostanziale esautoramento del lavoratore dalle sue mansioni, la quale è fonte di danno alla sfera patrimoniale e/o non patrimoniale del lavoratore ove ricollegabile eziologicamente all’inadempimento del datore di lavoro”.

Da un punto di vista più tecnico processuale, altrettanto rilevante per i risvolti pratici, è stato puntualizzato che “la riconduzione al demansionamento dell’identico comportamento ascritto alla datrice di lavoro non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico”.

Peraltro, la medesima sentenza di cui si parla cita una precedente pronuncia della Suprema Corte (n. 6326 del 23 marzo 2005), la quale utilizza a contrario i medesimi principi, nel senso che ha respinto le censure datoriali circa le decisioni di merito che avevano ristorato (con la liquidazione del danno biologico) il lavoratore qualificando come mobbing quello che, sempre da parte del lavoratore, era stato descritto come un caso di dequalificazione e demansionamento attuato nell’ambito di un “globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”.

Da quanto fin qui riferito, emerge quindi chiaramente che non bisogna correre il rischio di farsi suggestionare (in un senso o nell’altro) dalle etichette o dagli aspetti definitori delle fattispecie, ma badare alla sostanza dei singoli eventi, comportamenti e circostanze che possono (in un’ottica preventiva) generare o avere generato il danno risarcibile per il dipendente.

Ciò non è di poco conto, perché se il mobbing è una tipologia complessa per la quale, in senso più stretto, è necessario accertare l’elemento soggettivo e l’intento persecutorio, le condotte che possono dar luogo a lesione risarcibile possono prescindere – come visto – da tali elementi.

Pertanto, è ammissibile che i diversi comportamenti, commissivi o omissivi, posti in essere dal datore di lavoro generino un danno biologico (non solo professionale) risarcibile anche se non contestualizzabili in una più ampia condotta vessatoria e persecutoria, e pure se ricondotti a scelte gestionali che potrebbero apparire neutre rispetto a possibili conseguenze lesive.

Potrebbe non essere superfluo ricordare anche che il mobbing, come fattispecie complessa e potenzialmente comprensiva di condotte plurime e differenti, così come singoli atti, possono portare a una condanna risarcitoria da parte dei giudici anche se posti in essere non dal datore di lavoro in persona, ma da colleghi parigrado del soggetto passivo o perfino da suoi sottoposti; la giurisprudenza ammette, infatti, la distinzione del mobbing orizzontale da quello verticale ma solo ai fini (ancora una volta) definitori, non per diminuirne l’eventuale portata lesiva.

Del resto fornire di contenuto tassativo il contenitore mobbing può risultare difficile e, forse, non necessario.

La corte costituzionale e il mobbing

Si segnala come si sia occupata della materia anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 359 del 10-19 dicembre 2003, seppur per una questione di illegittimità riferita ad aspetti di legislazione concorrente tra Stato e Regioni; in particolare, il Governo – le cui ragioni sono in effetti state accolte – aveva promosso ricorso contro la legge della Regione Lazio n. 16 del 11 luglio 2002, la quale riguardava “Disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro”.

La legge regionale forniva all’art. 2 la “definizione di mobbing”, individuandolo al comma primo in “atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo … che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”.

Il comma secondo forniva un elenco che, seppur da presumersi non tassativo, si azzardava nella descrizione di ben tredici fattispecie più o meno specificate e integranti, secondo il legislatore regionale, appunto il mobbing e che in alcuni casi erano assimilabili a veri e propri illeciti penali.

In particolare l’art., comma secondo, L.R. Lazio 16/2002 elenca(va) le seguenti condotte ritenute mobbizzanti : “Gli atti ed i comportamenti di cui al comma uno possono consistere in: a) pressioni o molestie psicologiche; b) calunnia sistematica; c) maltrattamenti verbali ed offese personali; d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma velata ed indiretta; d) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili; f) delegittimazione dell’immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all’impresa, ente od amministrazione; g) esclusione od immotivata marginalizzazione dell’attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni; h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore; i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto; l) impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro; m) marginalizzazione immotivata della lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale; n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni ho seri disagi; o) atti vessatori e correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di religione”.

Nonostante la norma non sia sopravvissuta al vaglio costituzionale, le tipizzazioni proposte rappresentano in ogni caso delle corrette esemplificazioni da tenere in considerazione.

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