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Il profilo dello pseudo-dirigente e le tutele contro i licenziamenti

19.03.2021 | Pubblicazioni

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di Manuela Carone e Annalisa Rosiello – Avvocate Giuslavoriste, aprile 2014

1)    Pseudo-dirigente: inquadramento normativo di riferimento.

La complessità della figura professionale del dirigente deriva dalla mancanza di una specifica definizione in grado di distinguerla efficacemente dagli altri profili professionali (in particolare quadri), con i quali può trovarsi a condividere più di un aspetto.

Anche recentemente la Corte di Cassazione ha specificato che la qualifica di dirigente non spetta solo al prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, ricopra un ruolo apicale nell’organizzazione aziendale, ma anche a chi per qualificazione professionale o responsabilità, rivesta di fatto una posizione di autonomia; l’analisi è dunque focalizzata  sulle concrete mansioni svolte dal dipendente e sul grado di autonomia riservatogli.

Più specifico e particolare è il discorso relativo al c.d. pseudo-dirigente, il quale, pur essendo inquadrato nella categoria dei dirigenti attraverso la formale investitura di un nomen (quello “apparente” di dirigente), di fatto svolge mansioni caratterizzate da un grado di autonomia ed indipendenza non corrispondenti al profilo, tipizzando piuttosto le mansioni della categoria inferiore di quadro o impiegato direttivo; il profilo dello pseudo-dirigente si distingue peraltro da quello del c.d. mini-dirigente (o dirigente non apicale), definito dalla giurisprudenza come quel dirigente che non è collocato in posizione di immediata subordinazione rispetto al datore di lavoro, ma è posto alle dipendenze di un altro dirigente di livello superiore. Pur se delimitata, a tale ultima figura è conferita (e confermata giurisprudenzialmente) quell’autonomia decisionale preclusa allo pseudo-dirigente.

E’ possibile di norma  rinvenire il profilo dello pseudo-dirigente in due ipotesi: in primis qualora vi sia stata la formale attribuzione della qualifica dirigenziale per mera valorizzazione del merito del lavoratore o della sua stessa semplice accondiscendenza, senza che a ciò corrisponda un sostrato mansionistico pertinente alla categoria.

Altra ipotesi potrebbe venire a configurarsi in caso di demansionamento a danno dell’originario dirigente, sottoposto ad un processo di erosione del proprio mansionario anche mediante pratiche di mobbing o straining aziendale.

Il disposto dell’art. 2103 c.c., infatti, nel sancire il diritto del lavoratore all’adibizione a mansioni corrispondenti alla propria qualifica, vige naturalmente anche nei confronti del dirigente; anche il dirigente, quindi, può validamente rivendicare la lesione, da parte del datore di lavoro, del diritto all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale, con tutte le conseguenze sul piano risarcitorio.

Per la configurazione dell’inadempimento datoriale in parola, eventualmente anche ai fini qualificatori dello pseudo-dirigente, non è tuttavia sufficiente una mera modificazione delle mansioni, ma è necessario analizzare la portata della riduzione delle stesse sul livello professionale effettivamente raggiunto dal dipendente, sulla sua collocazione e sulla rilevanza del ruolo nell’ambito aziendale.

2)    Licenziamento ingiustificato dello pseudo-dirigente e rimedi applicabili.

La collocazione del lavoratore sotto la definizione di pseudo-dirigente rappresenta dunque il passaggio necessario per l’identificazione della opportuna tutela legale applicabile.

Il tratto distintivo del rapporto tra il datore di lavoro ed il dirigente risiede nella fiducia e nella diretta incidenza delle funzioni del dirigente rispetto alle attività di gestione, oltre che nei suoi poteri di rappresentanza interna/esterna.

La peculiarità del rapporto di lavoro dirigenziale si traduce, come è noto, in una rilevante differenza di tutela rispetto agli altri lavoratori dipendenti, con riguardo soprattutto alla risoluzione del rapporto di lavoro; ed invero, indipendentemente dal numero dei dipendenti, il dirigente non è destinatario della legislazione di garanzia prevista dal nostro ordinamento giuridico (in particolare non è operante né il regime della tutela cd  “reale” del posto di lavoro ex art. 18 l. 300/70 e successive integrazioni e modifiche, né della tutela cd “obbligatoria” di cui alla l. 604 del 1966 e successive integrazioni e modifiche); opera infatti nello specifico la libera recedibilità ex art. 2118 c.c., attenuata (e di molto) dalla previsione di forme di tutela indennitaria/risarcitoria normalmente stabilite dalla contrattazione collettiva per il caso di “ingiustificatezza” del licenziamento.

Nel caso dello pseudo-dirigente, capace di racchiudere in sé gli aspetti tanto del dirigente (sul piano formale dell’inquadramento), quanto dell’impiegato (sul piano sostanziale delle mansioni di fatto espletate) ci si trova innanzi alla difficoltà (o possibilità) di individuare la tutela legale applicabile avverso il licenziamento.

In proposito pare piuttosto consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il regime di risoluzione del rapporto dello pseudo-dirigente (che dovrà in tal senso chiedere un accertamento preliminare al Giudice) soggiace all’ordinaria disciplina legale limitativa dei licenziamenti prevista per le altre categorie di lavoratori (operai, impiegati e quadri): l’art. 18 della l. 300/70 o, nel caso di aziende con meno di 15 dipendenti, la l. 604/1966. Anche recentemente, con sentenza n. 20763 del 2012,  la Corte Suprema ha confermato tale assunto, ribadendo il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro dello pseudo-dirigente destinatario di un licenziamento in assenza dei presupposti causali che lo legittimano.

Invece nel caso del dirigente “genuino”, come è noto, il licenziamento radica la sua legittimità sui principi di correttezza e buona fede, e come diffusamente previsto dalla contrattazione collettiva, dalla sussistenza del requisito della “giustificatezza”. Questa, di gran lunga differente dalle nozioni di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento, comporta un “alleggerimento” dell’onere della prova in capo al datore di lavoro, il quale si libera dalla dimostrazione della legittimità del disposto licenziamento limitandosi a rilevare qualsiasi motivo giuridicamente valutabile che sia idoneo a turbare il vincolo fiduciario con il dirigente. Non è normalmente ritenuta necessaria, invece, alcuna ulteriore dimostrazione circa l’impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro, la dimostrazione dell’impossibilità di ripescaggio, la sussistenza una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa la prosecuzione.

3)    Conclusioni

Alla luce delle osservazioni sopra riportate occorrerà dunque analizzare di volta in volta il corretto inquadramento da riservare al dirigente, considerando che da questa operazione dipenderà il tipo di tutela approntata e con essa i rimedi sanzionatori, oltre che la configurazione dell’onere della prova in sede giudiziaria.

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