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Novità giurisprudenziali 24 aprile 2018, a cura di Monica Serra.

15.03.2021 | News

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– SPESE DI LITE –

Corte Costituzionale, sentenza n. 77 del 19 aprile 2018

Dopo lunga attesa, la Corte Costituzionale si pronuncia sulle eccezioni di illegittimità dell’art. 92 del codice di procedura civile, che regola la c.d. liquidazione delle spese di giudizio: la questione era stata sollevata da due Giudici del lavoro che avevano rilevato come la nuova previsione era idonea a causare una disparità di trattamento tra lavoratore e datore di lavoro, nel caso di soccombenza del primo.

La norma, prima della modifica intervenuta nel corso del 2014, consentiva infatti al giudice – in tutti i giudizi e, a maggior ragione, nelle cause di lavoro dove è forte lo squilibrio economico tra le parti – di disapplicare il c.d. principio di soccombenza che prevede, a livello generale, l’imputazione delle spese di giudizio in capo alla parte che perde la causa, nelle ipotesi di “gravi ed eccezionali motivi”. In seguito all’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 92 cpc era venuta a cadere questa possibilità, ammessa solo nei casi di soccombenza reciproca ovvero “assoluta novità della questione” ovvero ancora di “mutamento della giurisprudenza su questioni dirimenti”.

La Corte Costituzionale si è pronunciata sulle eccezioni sollevate dal Tribunali di Torino e di Reggio Emilia, entrambe in funzione di Giudice del Lavoro, che hanno evidenziato come l’applicazione del nuovo regime dell’art. 92 cpc alle cause di lavoro violasse il principio di uguaglianza e ragionevolezza, censure accolte dalla Corte Costituzionale che ha quindi dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”; l’effetto pratico della pronuncia è che il Giudice chiamato a decidere su una certa causa – quindi anche in materia di lavoro – potrà, verificate le gravi ed eccezionali ragioni quali ad esempio lo squilibrio economico tra le parti, compensare le spese di giudizio evitando, quindi, di penalizzare il lavoratore.

– LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA E DIRITTO DI CRITICA –

Tribunale di Busto Arsizio, sezione Lavoro, sentenza 20 aprile 2018 n. 62

In tema di diritto di critica, il Tribunale di Busto Arsizio ha affermato che il licenziamento disciplinare del lavoratore è legittimo se il tweet sia idoneo a ledere l’immagine del datore di lavoro e renda palese il disprezzo verso l’azienda e i suoi amministratori.

Secondo il Giudice, infatti, il diritto di critica ha precisi requisiti e caratteri che, se travalicati, possono legittimamente ledere il vincolo di fedeltà esistente tra le parti e comportare il legittimo licenziamento disciplinare del lavoratore.

In tema di onere della prova, inoltre, il lavoratore che contesta la paternità di un post adducendo di aver lasciato incustodito il suo smartphone o tablet deve dimostrarne l’accesso abusivo da parte di terzi.

Tribunale di Milano, sezione Lavoro, sentenza 29 novembre 2017 n. 3153

Sempre in tema di diritto di critica, il Tribunale di Milano, si era pronunciato sostenendo che questo abbia dei contorni più sfumati e che vi possa rientrare legittimamente la pubblicazione su social network, da parte del lavoratore, di un articolo riguardante il datore di lavoro corredato da un  commento generico, nella specie “padroni così meritano solo disprezzo” e “bastardo”: per il Giudice questa seconda espressione non sarebbe diffamatoria, ma una semplice manifestazione di disistima.

– LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA E PERMESSI EX LEGGE 104 –

Tribunale di Milano, sezione Lavoro, ordinanza 26 marzo 2018 n. 8214

In tema di permessi 104, il Tribunale di Milano ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento comminato ad una lavoratrice a cui era stato contestato l’abuso e l’illecito utilizzo dei permessi ex Legge 104 per l’assistenza ad un familiare disabile.

In particolare il Giudice, affermando che il sacrifico a cui viene esposto il datore di lavoro, che deve rinunciare a parte della prestazione lavorativa del proprio dipendente, debba essere accompagnato e compensato dall’effettivo espletamento dei compiti di assistenza cui i permessi sono connessi, ha poi dichiarato che a fronte di un solo episodio di abuso del diritto la massima sanzione espulsiva si configura come eccessiva e sproporzionata, con conseguente applicazione del regime di cui al comma 5 dell’art. 18, L. 300/1970.

– CONTROLLI DEL LAVORATORE –

Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 1 febbraio 2018 n. 53

Secondo il Garante per la protezione dei dati personali è illecita la raccolta sistematica e la memorizzazione da parte del datore di lavoro di e-mail in entrata e in uscita dei propri dipendenti anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Tale comportamento consiste infatti nel controllo massimo, prolungato e indiscriminato dell’attività del lavoratore.

Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 4 aprile 2018 n. 8373

La sentenza in esame interviene sulla legittimità di controlli sull’attività del lavoratore effettuati con l’ausilio di agenzia investigativa; in particolare nel caso affrontato dalla Cassazione il lavoratore era stato licenziato perché scoperto, in seguito ad accertamenti investigativi, ad occuparsi di affari privati in luogo di attività lavorativa, quindi durante l’orario di lavoro.

Secondo la Corte in questo caso l’attività di controllo è svolta in modo lecito: il controllo non era infatti volto ad accertare le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, ma il rispetto dell’orario di lavoro e la presenza in servizio del dipendente.

– INFORTUNI SUL LAVORO –

Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 30 gennaio 2018 n. 2278

In caso di infortunio sul lavoro, se l’INAIL decide di agire in rivalsa sul datore di lavoro non è tenuta a specificare le norme a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro che il datore di lavoro avrebbe violato.

Solo il Giudice, appurati gli elementi di fatto della vicenda, può accertare la violazione delle norme antinfortunistiche violate che, quindi, radicano la responsabilità datoriale.

Tribunale di Como, sezione Lavoro, sentenza 24 ottobre 2017 n. 219[1]

L’infortunio sul lavoro verificatosi per carenza dei dispositivi di sicurezza è indennizzabile dall’INAIL ma non esonera il datore di lavoro dal pagamento del danno differenziale anche in assenza di una specificazione delle voci di danno patite: sul punto deve dirsi, infatti, che la domanda di risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non derivanti da un illecito aquiliano esprime la volontà di riferirsi a ogni voce di danno possibile.

– DISCRIMINAZIONE PER MOTIVI RELIGIOSI –

Corte di Giustizia dell’Unione Europea, causa C-414/16, sentenza 17 aprile 2018

Con questa sentenza la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che non ricorre alcuna discriminazione fondata su motivi religiosi, quando proprio il fattore legato alla religione è oggettivamente essenziale allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Il caso trae origine dalla controversia di diritto tedesco, sorta tra un ente religioso, che aveva pubblicato un’offerta di lavoro, e una potenziale candidata. L’offerta lavorativa riguardava in particolare l’attività di redazione e analisi di una relazione in materia di discriminazione razziale ed era specificamente rivolta a candidati professanti la religione dell’ente promotore; la candidata, esclusa dalla procedura di selezione perché non aveva indicato di professare il credo in questione, ha proposto giudizio sostenendo la natura discriminatoria dell’esclusione e dell’offerta stessa.

Il Giudice tedesco investito della controversia ha sottoposto alla Corte di Giustizia la questione di conformità al diritto comunitario della normativa nazionale e la circostanza secondo la quale l’essenzialità dell’adesione alla religione per l’attività da svolgere sarebbe stata stabilita dalla stessa confessione religiosa.

Secondo la Corte di Giustizia, invece, il connotato dell’essenzialità deve essere oggettivo e verificabile anche dal giudice di merito, che ha infatti l’onere di interpretare il diritto interno in conformità del diritto comunitario o comunque a disapplicarlo se vi sia un contrasto con principi generali sanciti dal diritto dell’Unione.

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