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Lavoratrici madri. Il recente favor del Ministero sui patti in dequalifica. Rilievi critici

17.03.2021 | Pubblicazioni

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Annalisa Rosiello, Avvocato Giuslavorista in Milano, novembre 2011

Premessa. L’interpello e la risposta della Direzione Generale del Ministero

Il consiglio dell’Ordine dei Consulenti del lavoro ha avanzato una richiesta di interpello per conoscere il parere della Direzione Generale del Ministero del lavoro in merito alla possibilità di considerare legittimo l’accordo intercorso tra la lavoratrice madre entro l’anno di età del bambino e il proprio datore di lavoro, avente ad oggetto l’assegnazione a mansioni inferiori con eventuale decurtazione della retribuzione; tale accordo, secondo l’Ordine interpellante, è volto alla salvaguardia dell’interesse prevalente alla conservazione del posto di lavoro, e troverebbe la propria ratio giustificatrice nell’oggettiva impossibilità di assegnare la lavoratrice alle mansioni da ultimo svolte, ovvero a mansioni equivalenti, a causa della soppressione della funzione o reparto cui la stessa era adibita anteriormente all’astensione.

La Direzione Generale del Ministero del lavoro, dopo un breve ragionamento sulle linee giurisprudenziali in tema di ammissibilità dell’accordo in dequalifica laddove l’alternativa sia il licenziamento, afferma: “in linea con il richiamato orientamento giurisprudenziale, sembra potersi considerare lecito il patto di demansionamento sottoscritto tra il datore e lavororatrice madre, rientrante in servizio in epoca antecedente al compimento di un anno di età del bambino. In tal caso” prosegue la D.G., “occorre tuttavia verificare che il contesto aziendale sia tale che, per fondate e comprovabili esigenze tecniche, organizzative e produttive o di riduzione di costi, non sussistano alternative diverse per garantire la conservazione del posto di lavoro e per consentire aliunde l’esercizio delle mansioni. Non appare invece lecito, finché dura il periodo in cui vice il divieto di licenziamento, che dalla soluzione innanzi prospettata consegua anche la decurtazione della retribuzione, in quanto tale soluzione appare in contrasto con la finalità della norma che comunque preclude il recesso datoriale anche nell’ipotesi di soppressione del posto di lavoro (a meno che non si verifichi la cessazione dell’attività dell’azienda)”.

Per un commento alla risposta menzionata v. anche Olivetta, Lecito il demansionamento per “extrema ratio” della lavoratrice madre, in Pianeta Lavoro e Tributi, n. 19/2011.

Rilievi critici alla risposta del Ministero. Contrasto con il d.lgs. 151/2001

La risposta fornita dal Ministero, ad opinione di chi scrive, si pone in netto contrasto con la normativa imperativa di legge e va persino al di là di quelli che erano i contorni – pure ben definiti – dell’interpello, giungendo, sembrerebbe, a legittimare il demansionamento legato a “fondate e comprovabili esigenze tecniche, organizzative e produttive o di riduzione di costi”.

In primo luogo si rileva che il quesito (con relativa risposta) fa riferimento solo alle lavoratrici madri, laddove, invece, la normativa di tutela che si andrà brevemente a richiamare opera anche in favore dei lavoratori padri fruitori dei congedi di legge.

A ciò si aggiunga quanto segue.

La norma che è volta a tutelare la professionalità nei casi di congedo de quo è l’art. 56 del d.lgs. 151/2001, che stabilisce che “le lavoratrici (e i lavoratori fruitori di congedo) hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate (-i) all’inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno altresì diritto di essere adibite (-i) alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti”.

Entro l’anno di vita del bambino, vale la pena ricordarlo, l’azienda non può in nessun caso disporre né la risoluzione né la sospensione del rapporto (salvi i casi eccezionali previsti dall’art. 54 d.lgs 151/2001); la salvaguardia di tutti gli effetti (ripristinatori e risarcitori) del licenziamento della lavoratrice madre (e del lavoratore padre fruitore di congedo) e la inderogabilità degli stessi per mezzo di contratto collettivo è confermata, peraltro, anche dal recente intervento normativo, la c.d. “manovra di agosto” (art. 8, comma 2, lettera e, DL 138/2011, convertito con modificazioni in L. 148/2011); anche le dimissioni rassegnate nel periodo in questione debbono essere convalidate dal servizio Ispettivo pubblico, dato che si vuole verificare, tramite un funzionario super partes, che in un periodo così delicato per la persona il consenso sia effettivo e genuino.

In sostanza tutte le disposizioni sopra menzionate (ma ve ne sono numerose altre) sono state rese dal legislatore nella convinzione, confermata dalla numerosa casistica, che i lavoratori ma soprattutto le lavoratrici, al rientro dal congedo, possano trovarsi fortemente a rischio di condotte discriminatorie volte alla loro espulsione o comunque alla loro marginalizzazione.

Tale finalità vale anche con riguardo alla tutela della professionalità: al rientro dal congedo la lavoratrice e il lavoratore possono trovarsi davanti a situazioni in cui le loro mansioni sono state ridistribuite tra i vari colleghi, oppure assegnate a personale neo-assunto che riscuote maggior gradimento da parte del datore di lavoro e/o che consente un “risparmio di costi”.

Ma la normativa imperativa di legge sopra brevemente richiamata, dal nostro punto di vista, mira ad escludere che tali situazioni possano sfociare in una illegittima penalizzazione, anche laddove l’assegnazione a mansioni inferiori sia “concordata” con la lavoratrice interessata; il demansionamento e lo straining, come è risaputo, crea infatti danni ingenti sia dal punto di vista personale che professionale (v. da ultimo Vannoni, Equivalenza delle mansioni e demansionamento: la giuriprudenza recente, in Pianeta Lavoro e Tributi, n. 20/2011) e diviene ancor più odioso laddove assuma i contorni della discriminazione (v. anche infra).

Si osserva inoltre che nell’ipotesi in questione, a differenza che per quanto accade in caso di dimissioni, non vi sarebbe alcuna verifica circa la genuinità del consenso. Inoltre chi potrebbe attestare, se non ex post e a danno fatto, l’effettività delle esigenze aziendali?

Rilievi critici. Segue. Contrasto con l’art. 2103 c.c. e con i precetti costituzionali.

Il parere del Ministero va altresì a contrastare col disposto dell’art. 2103 c.c. che stabilisce “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito. (…) Ogni patto contrario è nullo”.

La norma di cui all’art. 2103 è dunque inderogabile anche in presenza di accordo tra le parti, esempio di una previsione cogente che non lascia spazio a modifiche peggiorative determinate o da una volontà unilaterale.

Essa presenta una stretta correlazione con importanti principi costituzionali quali quello del rispetto dei diritti inviolabili della persona anche nelle formazioni sociali ove la sua personalità si svolge (art. 2, art. 4, art. 35 Cost.), così che il lavoro è visto non solo e non tanto come fonte di sostentamento, ma altresì come strumento imprescindibile per la espressione e per la realizzazione della personalità del lavoratore. E nel caso qui in esame è correlato anche con il principio di uguaglianza (art. 3 e art. 37 Cost.) e con tutta la normativa antidiscriminatoria (in particolare con il d.lgs. 30 maggio 2005, n. 145).

Il c.d. “patto di demansionamento” è ammesso in circostanze ed ipotesi del tutto eccezionali e chiaramente indicate quali deroghe all’art. 2103 c.c. da norme di pari grado (e non da accordi individuali): tali sono, ad esempio, l’art. 4, comma 11, L. 223/1991 ovvero l’art. 7, d.lgs. 151/2001 in materia di tutela della maternità, che prevede l’assegnazione a mansioni inferiori della lavoratrice in gravidanza nel caso in cui quelle di assunzione siano ricompresse tra le mansioni a rischio o comunque interdette in relazione al peculiare stato della lavoratrice.

Ora, è vero che sussiste, così come riporta anche il Ministero nella risposta in esame, una giurisprudenza che ammette il patto in dequalifica qualora l’alternativa sia il licenziamento (esiste tuttavia anche giurisprudenza recentissima contraria; v. Cass. 14 aprile 2011, n° 8527), ma poiché nello specifico delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri fruitori di congedo il licenziamento è atto totalmente soggetto a divieto, dal nostro punto di vista non può mai costituire un’alternativa (salvo i casi di totale cessazione dell’attività aziendale) e dunque l’interpretazione fornita dal Ministero non può trovare favore.

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