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Tutela della salute e prevenzione delle discriminazioni di lavoratori provenienti da altri Paesi, di Annalisa Rosiello, settembre 2020

22.03.2021 | Pubblicazioni

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Con questo contributo si intende fornire qualche spunto di riflessione sulla corrispondenza tra gruppi di lavoratori esposti a specifici rischi per la salute e gruppi soggetti a rischio discriminazioni. Il focus sarà il fattore provenienza da altri Paesi, origine etnica, nazionalità e, per certi aspetti, religione. Riteniamo che – proteggendo in maniera adeguata e peculiare la salute dei migranti – il datore di lavoro possa innescare un circolo virtuoso a beneficio sia degli stessi lavoratori sia dell’orga- nizzazione e della collettività.

Vedremo ad esempio il caso dei lavoratori che affrontano il periodo di digiuno durante il ramadan.

In caso contrario potrebbero determinarsi conseguenze risarcitorie (al verificarsi di eventi lesivi della salute) e la condotta del datore di lavoro potrebbe anche configurarsi come discriminatoria, come vedremo in alcuni esempi.

Questo dal momento che situazioni sensibilmente diverse, che per legittime finalità andrebbero necessariamente e per legge trattate in maniera differente, vengono ingiustificatamente omologate a tutte le altre, creando talvolta il terreno fertile per discriminazioni, azioni moleste e pressioni nei riguardi di lavoratori e lavoratrici appartenenti ai gruppi in esame.

Riteniamo infatti che la mancata protezione, la mancata adozione di adeguate misure preventive e la mancata adozione di specifici e differenziati rimedi potrebbe non solo dar luogo alle conseguenze ex art. 2087 c.c., ma anche creare le condizioni per lo sviluppo di discriminazioni di tipo indiretto, diretto o di molestie.

In questo intervento cercheremo di spiegare l’affermazione che precede e cercheremo di indicare possibili ulteriori misure per tutelare le categorie e i gruppi più a rischio sia salute che discriminazioni, in particolare i migranti.

Fattori di rischio ex art. 28 D.lgs. 81/2018 e fattori di discriminazione: le misure differenziate da adottare

L’art. 28, d. lgs. n. 81/2008 stabilisce che l’oggetto della valutazione dei rischi “deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato … e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza…, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione”.

E dato che la prevenzione non si rivolge a un “neutro” (che poi tende a coincidere con il tipo: “maschio-quarantenne-in salute-di nazonalità italiana”), andranno considerati specificamente, tra gli altri, anche quei gruppi che il legislatore considera soggetti a rischi particolari di cui si è detto. Tale obbligo come sappiamo, in base all’art. 17 t.u., non è delegabile.

Infatti per comune esperienza e conoscenza – che deriva il larga misura dagli studi in ambito clinico e socio-economico – i gruppi richiamati dall’art. 28 t.u. presentano di fatto maggiori rischi legati alla salute (fisicamentale e/o sociale) e quindi necessitano di misure specifiche sia in generale, sia per non creare quel terreno fertile per lo sviluppo di condotte discriminatorie o moleste.

Il quadro normativo è stato da ultimo arricchito dalla l. 205/2017 (legge di bilancio 2018), in modifica all’art. 26 D.lgs. 198/2006 3-ter, che – relativamente ai rischi legati alle differenze di genere – introduce una specificazione degli obblighi di prevenzione delle molestie sessuali e viene specificato un generale obbligo di prevenzione dei fenomeni disfunzionali (mobbingstrainingstress lavoro correlato, ecc.). In particolare il legislatore ha previsto: “I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su princìpi di eguaglianza e di reciproca correttezza”.

Esaminando i fattori di discriminazione previsti nel complesso della normativa antidiscriminatoria (d.lgs. n. 198 dell’11 aprile 2006, nei dd. llggss. n. 215 e 216 del 9 luglio 2003, t.u. 286/98, art. 15 Stat. Lav.) possiamo ricavare questo elenco: sessorazzaorigine etnicanazionalitàreligioneconvinzioni personalihandicapetàorientamento sessuale, orientamento o attività sindacale, orientamento politico.

I gruppi omogenei considerati dalle normative richiamate – rispettivamente in materia di sicurezza e di discriminazioni – trovano tra loro molte coincidenze.

E’ possibile affermare che questa sovrapponibilità non sia casuale; spesso infatti le discriminazioni colpiscono i lavoratori più vulnerabili in ragione dell’età [1], del genere o, come nel caso che qui si sta affrontando, per provenienza da altri paesi.

Le specifiche e adeguate misure, pertanto, contribuiscono a limitare i rischi specifici e connaturati alle singole categorie e a prevenire condotte discriminatorie o moleste.

La provenienza da altri Paesi

Veniamo ad applicare questi principi e questa tesi al fattore provenienza da altri paesi.

La nazionalità, il colore della pelle, la razza, l’etnia, lingua, che interseca anche il fattore religione costituiscono uno dei principali argomenti di attenzione della normativa sulla salute e della normativa antidiscriminatoria.

Molto frequente, specialmente in settori produttivi come quello agricolo, della grande industria, dei multiservizi e pulizia, è la presenza di un elevato numero di lavoratori stranieri.

Tale categoria di lavoratori presenta una serie di rischi specifici legati al tema dell’integrazione.

La criticità principale e immediata si riscontra nella limitata o talvolta nulla conoscenza della lingua, tale da porre i lavoratori stranieri in una posizione di svantaggio a seguito della minore possibilità in generale di relazionarsi, di comprendere le direttive scritte o verbali e di esternare le criticità riscontrate nello svolgimento della prestazione.

Questo rischio, se non adeguatamente considerato in sede di valutazione e elaborazione del Dvr, può comportare varie criticità: la più evidente è quella connessa al verificarsi di infortuni o malattie professionali, incluse quelle legate allo stress lavoro correlato (per il deficit relazionale che potrebbe venirsi a creare); è anche possibile che vengano a crearsi comportamenti molesti e di marginalizzazione.

Fondamentale è dunque riconoscere questo fattore di rischio quando presente, svolgere opportune e adeguate azioni o adottare misure adeguate per favorire il processo di integrazione dei lavoratori stranieri: corsi di lingua, corsi specifici in tema di sicurezza sul lavoro, corsi di interculturalità e valorizzazione delle relazioni e dell’inclusione, ecc..

Ulteriore aspetto da considerare è la minore percezione del rischio che i lavoratori migranti hanno quando provengono da paesi con scarse o assenti normative di prevenzione e formazione sulla sicurezza.

La situazione di bisogno e talora di irregolarità che le persone provenienti da altri paesi hanno è ulteriore fattore che porta ad accettare tipologie contrattuali e forme di lavoro a volte persino disumane, che vanno ad accrescere pesantemente i rischi. Questo incremento di rischio è legato agli sforzi fisici estremi, alle cattive condizioni climatiche (eccessiva esposizione al caldo o al freddo), alle pessime condizioni igenico-sanitarie sia dell’ambiente di lavoro che degli alloggi messi a disposizione dal datore di lavoro o altrimenti reperiti, all’estensione sconsiderata dell’orario. Si pensi ai casi estremi e alle frequenti morti sul lavoro dei braccianti nel settore agro-alimentare, oppure ai casi di super-lavoro e morte di lavoratori cinesi nei laboratori del settore tessile [2]. Non possiamo in questa sede approfondire questo tema delicato, che riguarda una modalità delinquenziale di esercizio dell’impresa, ma è importante accennarlo.

Una questione invece per così dire più ordinaria che gli operatori della sicurezza e il datore di lavoro si trova a dover affrontare e gestire è quella relativa alle modalità con cui si manifesta, anche con condotte o atteggiamenti esteriori, il credo religioso.

C’è il caso in cui i lavoratori potrebbero avere la necessità di allontanarsi per brevi periodi durante il lavoro per recitare le preghiere, o la necessità di non avere contatto con la carne di maiale o la libertà di indossare segni esteriori della loro fede (crocifisso, velo per le donne islamiche, ecc.).

Queste situazioni possono normalmente essere gestite ricercando un contemperamento tra le esigenze organizzative e di sicurezza (ad esempio quelle di non lasciare sguarnito l’impianto) e le esigenze del lavoratore di professare la propria fede in maniera libera anche sul luogo di lavoro.

Molto importante, come diremo anche più avanti, è in questi casi la formazione, la cultura che può essere veicolata dal datore di lavoro sugli usi sociali, culturali e religiosi dei vari lavoratori presenti in azienda, come diremo anche in seguito. E che anche il datore di lavoro eviti comportamenti rigidi che potrebbero sfociare in discriminazione (sanzioni nei riguardi di chi recita la preghiera, ad esempio, potrebbero in determinati casi non solo essere considerate illegittime, ma anche discriminatorie).

Altre situazioni in cui è necessario porre attenzione all’inclusione riguardano il velo che lascia scoperto il volto (hijab) indossato dalle donne islamiche.

Ricordiamo che c’è stato un caso in Italia in cui un’azienda di selezione del personale aveva escluso dalla partecipazione come hostess a una fiera di calzature una ragazza italo-egiziana che si era rifiutata di lavorare senza il velo. La Corte d’Appello di Milano [3] ha ravvisato una discriminazione e ha condannato la società al risarcimento dei danni perché l’assenza del copricapo non poteva ritenersi un requisito essenziale di partecipazione alle selezioni per un lavoro di ricevimento visitatori e volantinaggio al punto da imporre alla lavoratrice la rinunzia ad un capo di abbigliamento connotante la sua identità religiosa. Molto probabilmente a differenti conclusioni si sarebbe giunti se, per esempio, alla lavoratrice fosse stato richiesto di reclamizzare dei prodotti cosmetici per i capelli [4].

Ad analoghe conclusioni è addivenuta anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Si veda C. Giust. 14 marzo 2017, C-157/15, Achbita e C. Giust. 14 marzo 2015, C-188/15, Bougnaoui. La questione riguardava una lavoratrice di fede islamica che aveva iniziato a indossare il velo sul luogo di lavoro, contravvenendo alla norma di policy aziendale che invece vietava ai lavoratori di mostrare segni distintivi delle proprie credenze. La Corte Europea ha stabilito nel caso specifico che la norma aziendale, applicata indistintamente a tutti i dipendenti, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione (v. Direttiva 2000/78/Ce), ritenendo giustificata e “legittima la volontà di un datore di lavoro di mostrare ai suoi clienti, sia pubblici sia privati, un’immagine di neutralità”. Al contempo tuttavia, la Corte sembra non escludere che norme di policy analoghe a quella esaminata possano costituire – se dimostrate davanti al giudice nazionale – una forma di discriminazione indiretta; e ciò per la condizione di particolare (e ingiustificato) svantaggio in cui potrebbero venirsi a trovare le persone aderenti a una determinata religione o ideologia. Al punto 43 la sentenza afferma inoltre che spetta al giudice del rinvio valutare i vincoli inerenti l’impresa – e quindi anche l’attività lavorativa – e verificare se, senza che questo comporti oneri aggiuntivi per l’impresa, sia possibile che questa proponga alla lavoratrice una posizione che non implichi il contatto visivo con i clienti. In sostanza, quindi, una misura che comporta un vero e proprio cambio di mansione. Non bisogna trascurare che l’integrazione in questo caso è ancora più importante perché l’intersezionalità tra genere e credo religioso (donna-islamica) [5] rischia di implementare gli effetti della discriminazione e la prescrizione di non indossare copricapo indurre la donna islamica a lasciare il lavoro, con effetti molto penalizzanti a livello familiare e sociale.Lo stesso discorso può estendersi alle persone di religione sikc (uomo-sikc) [6].

Ma la criticità legata al credo religioso che sfocia maggiormente in fattore di rischio salute deve essere riscontrata nei periodi di digiuno, pratica trasversale a tutte le religioni ma particolarmente rigorosa per i lavoratori di fede islamica nel periodo di ramadan.

Durante questo periodo, infatti, gli uomini e le donne possono bere e mangiare solo quando il sole non è ancora sorto o è già tramontato. In sostanza, quindi, ciò implica un periodo di digiuno che corrisponde all’orario lavorativo diurno, con le relative conseguenze in termini di debolezza, fragilità e fatica nello svolgimento delle proprie mansioni e con tutti i presumibili e prospettabili rischi.

Il datore di lavoro che ometta di considerare questo fattore, nonostante il contesto peculiare lo richieda, trascura una parte importante della valutazione. Anche in questo caso il datore di lavoro potrebbe porre in essere una serie misure atte a tutelare la salute del lavoratore per quello specifico periodo dell’anno quali l’assegnazione a diverse mansioni – segnatamente, più leggere – per permettergli di lavorare in sicurezza.

Il ruolo fondamentale della formazione

 

La formazione (sulla sicurezza, sulla prevenzione delle discriminazioni, sull’interculturalità) è e resta uno dei principali fattori attraverso cui favorire l’integrazione nella società e, in particolare, nei luoghi di lavoro, come prevede anche la legge di bilancio del 2018 sopra richiamata.

A proposito di questo, un caso che ha destato clamore è quello verificatori in una pizzeria milanese che fa capo una nota catena, in cui sono stati riscontrati atteggiamenti discriminatori da parte di colleghi e della società; in particolare il giudice ha accertato – attraverso la prova testimoniale – l’ utilizzo di espressioni razziste da parte del responsabile della pizzeria e anche il comportamento molesto a sfondo discrimianatorio consistito nello spruzzare deodorante, con modalità offensive e moleste (documentate da un filmato) ai (soli) lavoratori di origine africana.

Il Giudice, con una sentenza molto ben motivata, ha “ordinato alla società di adottare misure a rimuovere gli effetti e a prevenire ulteriori comportamenti” attraverso “la realizzazione di un corso al quale siano chiamati a partecipare, obbligatoriamente, tutti i dipendenti e che, con l’intervento di esperti, avvicini gli stessi alle tematiche razziali” [7].

La condanna al risarcimento del danno è stata estesa anche alla società, che, secondo il giudice, non avrebbe fatto abbastanza per far rispettare il regolamento interno che pure prevedeva al punto 2.2. l’obbligo per i dipendenti di avere “un atteggiamento inclusivo” e di ripudiare “ogni forma di emarginazione e discriminazione diretta o indiretta”.

Conclusioni

Con questo breve contributo si è inteso fornire qualche spunto di riflessione sulla corrispondenza tra gruppi di soggetti a rischio “sicurezza” e gruppi soggetti a rischio discriminazioni.

Questa corrispondenza non è casuale e infatti nella pratica è molto frequente che le discriminazioni colpiscano principalmente quegli stessi gruppi per i quali il legislatore della sicurezza ha richiesto  un’attenzione particolare.

Come abbiamo detto queste misure sono obbligatorie; non si tratta di azioni o adattamenti lasciati alla buona volontà o alla particolare lungimiranza e sensibilità del singolo datore di lavoro.

E infatti quanto risulta dall’esperienza e dalla scienza prevalentemente clinica (ad esempio quanto riferito in merito ai rischi particolari legati alla provenienza da altri paesi) è talmente noto, divulgato e ricordato in tutte le fonti e i documenti di matrice anche comunitaria che il datore di lavoro non può né potrà ignorarli.

Il datore di lavoro dovrà cioè esaminare accuratamente il proprio contesto, eseguire uno screening di tutti i fattori di rischio legati – per quanto qui detto – alla popolazione proveniente da altri paesi, e dedicare particolare attenzione ai gruppi qui trattati, scegliendo, adottando e verificando l’applicazione delle misure più adeguate per prevenire tutti i rischi.

“Lavorando” adeguatamente a protezione della salute, anche attraverso specifiche azioni formative, il datore di lavoro potrà innescare un circolo virtuoso a beneficio sia del lavoratore – che sarà con ciò salvaguardato, come abbiamo visto, anche negli altri diritti fondamentali (in primis la dignità) – sia dell’organizzazione, ed eviterà i contenziosi, le condanne e i danni all’immagine.

In caso contrario potranno determinarsi conseguenze risarcitorie (come visto nelle sentenze citate) la condotta del datore di lavoro potrà anche configurarsi come discriminatoria, dato che situazioni sensibilmente diverse, che per legittime finalità andrebbero necessariamente e per legge trattate in maniera differente, vengono trattate inappropriatamente in maniera uguale creando anche, come si è più volte ribadito, il terreno fertile per discriminazioni,  azioni moleste e pressioni nei riguardi di lavoratori e lavoratrici appartenenti ai gruppi in esame e in particolare alle persone provenienti da altri paesi.

Scarica qui il testo del contributo apparso sulla rivista Igiene e sicurezza sul lavoro 7/2020.

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