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Jobs act: anche le tutele crescenti generano precari. I nostri consigli a Di Maio su cosa riformare. Di Tatiana Biagioni, Aurora Notarianni e Annalisa Rosiello, il fattoquotidiano.it 13 giugno 2018

22.03.2021 | Pubblicazioni

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Facendo seguito alle recenti dichiarazioni del Ministro del lavoro e dello Sviluppo Economico relative alla necessità di contrastare la precarietà causata anche dal jobs act (come previsto nel “Contratto per il Governo del cambiamento”) vorremmo, con questo breve contributo, portare la nostra testimonianza di legali al fianco delle lavoratrici e dei lavoratori, relativamente a quello che è stato ed è tuttora il pesante squilibrio tra forze innescato dal jobs act e l’insufficienza (quando non proprio totale assenza) di strumenti per tutelare il lavoro, e finanche la dignità delle persone.

Ricordiamo in primo luogo il d.lgs. 23/2015 (cd “contratto a tutele crescenti”), che non solo ha escluso la reintegrazione nella stragrande maggioranza dei casi, ma ha nel contempo previsto un risarcimento risibile (due mensilità per ogni anno di lavoro) anche a fronte  di un licenziamento illegittimo; con ciò dando implicito avallo alle aziende di licenziare, dato che manca totalmente l’effetto dissuasivo di una sanzione equa (reintegratoria o quantomeno economica).

Tutti i lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015 sono quindi diventati precari a tempo indeterminato. Non solo. Anche quelli già dipendenti si sono trovati spesso sotto pressione, licenziati con un pretesto e catapultati a loro volta nel circuito del precariato istituito dalle cd. tutele crescenti.

La descritta situazione ha creato e crea, oltre all’evidente discriminazione, un clima lesivo della dignità della persona nei suoi diritti fondamentali, inclusi quelli sindacali; infatti ha spesso comportato e comporta per i lavoratori e le lavoratrici  (“vecchi e nuovi” assunti) la rinuncia all’esercizio dei propri diritti nel timore di esporsi e mettere così a rischio il proprio lavoro.

Ebbene, questa norma andrebbe urgentemente abrogata, senza attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale, per impedire che il futuro dei lavoratori del nostro paese sia precario a tempo indeterminato.

Ricordiamo inoltre – sempre nell’ambito del jobs act – il cd. decreto Renzi-Poletti 34/2014 recepito nel jobs act (d.lgs. 81/2015, artt. da 19 a 29), che ha definitivamente escluso la necessità di una motivazione per i contratti a tempo determinato. Attualmente i contratti a termine a-causali consentono l’assunzione a tempo determinato fino a tre anni e rendono possibili, nell’arco di questi tre anni, ben 5 proroghe. Cosicché un lavoratore va avanti di otto mesi in otto mesi, senza avere la possibilità di pianificare il futuro proprio e della propria famiglia; ovvero il paradigma della precarietà.

A questo aggiungasi che, solo adoperando la “cautela” di interrompere il rapporto per un tempo davvero breve o modificare le mansioni, l’azienda ha la possibilità di riassumere il dipendente ancora a termine (v. art. 21 d..lgs. 81/2015) così che il lavoratore rischia di restare precario “a vita”.

Anche queste disposizioni meritano di essere urgentemente cancellate, accogliendo quanto denunciato dal Parlamento europeo in una recentissima risoluzione.

Sul piano delle leggi del lavoro per combattere il precariato riteniamo anche necessaria e urgente l’introduzione di specifiche misure volte ad agevolare il mantenimento in servizio di persone in età non più giovane (bonus formazione, incentivi, ecc.), ma anche l’estensione della normativa sui ragionevoli accomodamenti, applicabile ora alle persone con disabilità, anche alle persone di età avanzata.

Possiamo testimoniare che parecchi lavoratori over 50, purtroppo ancora lontani dalla pensione, stanno vivendo il lavoro con disagio e senso di assoluta precarietà. Le aziende stanno mettendo in campo un processo di “svecchiamento” che rischia di  ricadere, oltreché direttamente sulla persona colpita, sulla collettività; riteniamo invece che anche le aziende debbano adoperarsi per salvaguardare il lavoro delle persone non più giovani (che incontrano difficoltà maggiori nel ricollocarsi), trovando adattamenti ragionevoli sul piano logistico, tecnico e organizzativo, in maniera similare a quanto avviene, obbligatoriamente e per legge, con riguardo alle persone con disabilità.

Reputiamo infine importante e urgente inserire a livello normativo la categoria del danno punitivo nel caso di discriminazioni e, soprattutto, di molestie sessuali. Queste ultime colpiscono in prevalenza le donne, compromettendone spesso la permanenza al lavoro, oltreché la salute e la dignità. Potrebbe essere introdotta una norma che preveda un risarcimento del danno che punisca i colpevoli di molestie e discriminazioni attuando così la funzione dissuasiva che il danno deve avere in queste ipotesi specifiche.

Chiaramente moltissime sarebbero le norme che andrebbero riformate anche intervenendo sul processo per inserire la negoziazione assistita e le sanzioni per le ipotesi di violazione degli obblighi di reintegra nel posto di lavoro, perché grande è il senso di ingiustizia, insicurezza e di precarietà che i lavoratori e le lavoratrici hanno avvertito per effetto delle “riforme” attuate dal passato Governo (art. 2103 c.c., normativa sui controlli, ecc.); ci siamo tuttavia limitate a riferire dei provvedimenti che riteniamo più importanti, urgenti e prevalentemente a costo zero, nell’auspicio di una rivisitazione complessiva della normativa che possa garantire alle relazioni di lavoro un maggiore equilibrio tra le parti e una maggiore equità in direzione di un reale sviluppo economico.

Articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano il 13 giugno 2018.

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