E’ un dato di realtà ormai, il Jobs act ha offerto al datore di lavoro un ulteriore strumento di pressione: la norma suldemansionamento facile. Il lavoratore rischia di ritrovarsi sempre più debole davanti a continue pressioni, senza peraltro poter contare su una legge specifica che faccia da contraltare. Ad oggi, infatti, manca una legge che disciplini e tuteli dal mobbing.
Il quesito è quindi d’obbligo: la normativa attualmente in vigore, oltre al progressivo disfacimento delle tutele, sta portando a qualche risultato?
L’entrata in vigore del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, relativo al c.d. “contratto a tutele crescenti” non è novità recente, ma di sicuro il dibattito intorno ai contenuti del provvedimento è solo all’inizio.
E’ di immediata comprensione che le nuove disposizioni - che come ben sappiamo non riguardano i “contratti”, bensì i “licenziamenti” - rappresentano il definitivo e silenzioso superamento non solo della tanto criticata Legge Fornero che pure era intervenuta sul punto, ma soprattutto dell’architrave dei diritti dei lavoratori, cioè l’art. 18 della Legge 300/1970.
In questo contributo proveremo ad illustrare le possibili derive nell’utilizzo da parte dei datori delle norme del jobs act e, in particolare, della norma sulle mansioni.
Potrebbe verificarsi, in particolare, un uso fraudolento del combinato di alcune norme per sbarazzarsi del personale più “anziano” (quello assunto prima del 7 marzo 2015) e per fare spazio al personale meno tutelato (e più a buon mercato).
La legge n. 190 del 22 dicembre 2014, meglio nota come Legge di Stabilità, ha disciplinato - all’ art. 1 comma 118 - il nuovo esonero contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato decorrenti dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2015, per un periodo di n° 36 mesi e per un importo massimo pari a euro 8.060,00 euro annui (quindi, per le assunzioni nel lasso di tempo interessato dalla norma, l’esonero complessivo sarà di circa 24.000,00 euro nel triennio).
È bene chiarire che la norma in questione non ha natura di aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107 del Trattato sul Funzionamento UE e, di conseguenza, alle assunzioni agevolate non si applica il regime de minimis (aiuti di piccola entità che le pubbliche autorità possono erogare per un importo massimo di euro 200.000,00 in tre anni), né è richiesta la verifica dell’ incremento occupazionale netto.
La legge delega meglio nota come Jobs Act contiene disposizioni variegate che spaziano dall’introduzione (già avvenuta e già in vigore) del “Contratto a Tutele Crescenti” sino al riordino della normativa sugli istituti a sostegno del reddito e della disoccupazione passando - dato che oggi ci interessa - alla riforma di una norma che per oltre quarant’anni è stata uno dei fondamenti del diritto del lavoro.
La legge di delega n. 183/2014 attribuisce al Governo il potere di intervenire “in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”.
In un periodo storico come l’attuale, in cui tornano nuovamente alla ribalta proposte di modifica all’impianto dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (in un ambito più allargato di riforma più o meno radicale del mercato del lavoro), ripresentano dilemmi antichi, alimentati (probabilmente) da una informazione generalista che pecca di approssimazione e da leggende metropolitane dure a morire, tutti incentrati sul licenziamento per giusta causa.
Premessa
Come già in precedenza hanno fatto altri governi, anche quello attualmente in carica sta discutendo di apportare modifiche strutturali all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’ultima riforma, giova ricordarlo, risale a soli due anni fa: si tratta della riforma c.d. Fornero (l. 28 giugno 2012, n° 92) intervenuta pesantemente sia sul processo sia sulle conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti in stabilità c.d. reale. Trattasi dell’apparato sanzionatorio previsto per il caso di recesso dal contratto a tempo indeterminato in realtà datoriali con oltre 15/60 dipendenti.
Relativamente al piano processuale di tale riforma, in un precedente contributo si è detto come le difficoltà e restrizioni interpretative legate al nuovo rito abbiano – nei fatti – pesantemente condizionato l’esercizio dei diritti e i diritti stessi dei lavoratori. V. A. Rosiello, Il processo Fornero e i diritti (offesi) dei lavoratori vittime del lavoro malato (e non solo di quelli).
Relativamente al piano sostanziale, ci si limita in questa premessa ad affermare come la legge n° 92/2012 abbia già fortemente ridimensionato le conseguenze del licenziamento, sostituendo spesso il diritto alla reintegrazione con un mero indennizzo economico. E ciò sia in (alcuni) casi di licenziamento non assistito da giusta causa o giustificato motivo soggettivo sia in (molti) casi di licenziamento non assistito giustificato motivo oggettivo.
Ebbene, pensiamo che sia difficilmente confutabile la considerazione che il nuovo rito da una parte e l’indebolimento complessivo dell’apparato sanzionatorio dall’altra abbiano reso nel complesso meno rischioso per i datori di lavoro procedere ad un licenziamento: anche laddove il licenziamento sia basato su motivazioni “deboli” la reintegrazione costituisce una possibilità (talvolta remota) e non – come in precedenza – una certezza.
La raccomandazione del Consiglio UE 22 aprile 2014, n 120
Il progetto c.d. “Garanzia giovani” (Youth Guarantee), di cui molto si è parlato in questi giorni, è raccomandato dal Consiglio dell’Unione Europea ed è finalizzato a contrastare la disoccupazione giovanile nei paesi UE.
Con l’espressione “Garanzia per i giovani” la raccomandazione del Consiglio del 22 aprile 2013 fa riferimento “a una situazione nella quale, entro un periodo di quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema di istruzione formale, i giovani ricevano un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio”.
1) Pseudo-dirigente: inquadramento normativo di riferimento.
La complessità della figura professionale del dirigente deriva dalla mancanza di una specifica definizione in grado di distinguerla efficacemente dagli altri profili professionali (in particolare quadri), con i quali può trovarsi a condividere più di un aspetto.
Anche recentemente la Corte di Cassazione ha specificato che la qualifica di dirigente non spetta solo al prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, ricopra un ruolo apicale nell’organizzazione aziendale, ma anche a chi per qualificazione professionale o responsabilità, rivesta di fatto una posizione di autonomia; l’analisi è dunque focalizzata sulle concrete mansioni svolte dal dipendente e sul grado di autonomia riservatogli.