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Demansionamento lavoratrici madri

17.03.2021 | Pubblicazioni

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Spett.le
Camera del lavoro di Milano
Centro Donna Corso di Porta Vittoria n° 43 20122 MILANO
Milano, 12 ottobre 2011

Oggetto: Vostra richiesta di parere sulla legittimità del demansionamento delle lavoratrici madri come affermata dalla Direzione Generale del Ministero del lavoro con risposta ad interpello 21-9-2011, n.39

 

La Direzione Generale del Ministero del lavoro, in risposta ad un interpello del Consiglio Nazionale dei Consulenti del lavoro afferma la possibilità che le lavoratrici madri al rientro dalla maternità, possano essere, previo accordo con il datore di lavoro, adibite a mansioni inferiori laddove non sia più possibile assegnarle alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. Viene invece esclusa la possibilità di operare una decurtazione della retribuzione.
La risposta fornita dal Ministero si pone a nostro avviso in netto contrasto con la normativa imperativa di legge e si auspica che non ottenga in nessun caso l’avallo dell’unico organo competente a fornire tale genere di “risposte”: la Magistratura.
Singolare è poi che il quesito (con relativa risposta) faccia riferimento solo alle lavoratrici madri, posto che la normativa di tutela che si andrà brevemente a richiamare opera anche in favore dei lavoratori padri fruitori dei congedi di legge.
La norma “incriminata” è l’art. 56 del d.lgs. 151/2001, che stabilisce che “le lavoratrici (e i lavoratori fruitori di congedo) hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate (-i) all’inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno altresì diritto di essere adibite (-i) alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti”.
Entro l’anno di vita del bambino, si rammenta, l’azienda non può in nessun caso disporre né la risoluzione né la sospensione del rapporto (salvi i casi eccezionali previsti dall’art. 54 d.lgs 151/2001) ed anche le dimissioni rassegnate debbono essere convalidate dal servizio Ispettivo pubblico.
Tutte le disposizioni sopra menzionate (ma ve ne sono numerose altre) sono state rese dal legislatore nella consapevolezza, purtroppo confermata dalla numerosa casistica, che i lavoratori ma soprattutto le lavoratrici, al rientro dal congedo, possano trovarsi fortemente a rischio di condotte discriminatorie volte alla loro espulsione.
Tale finalità vale anche con riguardo alla tutela della professionalità: al rientro dal congedo la lavoratrice e il lavoratore possono trovarsi davanti a situazioni in cui le loro mansioni sono state ridistribuite oppure assegnate a personale neo-assunto che riscuote maggior gradimento da parte del datore di lavoro.
La normativa imperativa di legge, dal nostro punto di vista, mira ad escludere che tali situazioni possano sfociare in una illegittima penalizzazione, anche laddove l’assegnazione a mansioni inferiori sia “concordata” con la lavoratrice interessata.
Si osserva inoltre che, in siffatta ipotesi, non vi sarebbe alcuna verifica circa la genuinità del consenso; ed inoltre chi potrebbe attestare l’effettività delle esigenze aziendali?
Il parere del Ministero va a contrastare anche col disposto dell’art. 2103 c.c. che stabilisce “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito. (…) Ogni patto contrario è nullo”.
La norma di cui all’art. 2103 è dunque inderogabile anche in presenza di accordo tra le parti, esempio di una previsione cogente che non lascia spazio a modifiche peggiorative determinate o da una volontà unilaterale.
Il precetto civilistico presenta una stretta correlazione con importanti principi costituzionali quali quello del rispetto dei diritti inviolabili della persona anche nelle formazioni sociali ove la sua personalità si svolge (art. 2, art. 4, art. 35 Cost.), così che il lavoro è visto non solo e non tanto come fonte di sostentamento, ma altresì come strumento imprescindibile per la espressione e per la realizzazione della personalità del lavoratore.
E nel caso qui in esame è correlato anche con il principio di uguaglianza (art. 3 e art. 37 Cost.) e con tutta la normativa antidiscriminatoria.
Il c.d. “patto di demansionamento” è ammesso in circostanze ed ipotesi del tutto eccezionali e chiaramente indicate quali deroghe all’art. 2103 c.c. da norme di pari grado (e non da accordi individuali): tali sono, ad esempio, l’art. 4, comma 11, L. 223/1991 ovvero l’art. 7, d.lgs. 151/2001 in materia di tutela della maternità, che prevede l’assegnazione a mansioni inferiori della lavoratrice in gravidanza nel caso in cui quelle di assunzione siano ricompresse tra le mansioni a rischio o comunque interdette in relazione al peculiare stato della lavoratrice.
Ora, è pur vero che sussiste una giurisprudenza che ammette il patto in dequalifica qualora l’alternativa sia il licenziamento (esiste tuttavia anche giurisprudenza recentissima contraria; v. Cass. 14 aprile 2011, n°8527), ma poiché nello specifico delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri fruitori di congedo il licenziamento è atto totalmente soggetto a divieto e non può mai costituire un’alternativa (salvo i casi di totale cessazione dell’attività aziendale) l’interpretazione fornita dal Ministero non può trovare alcun favore.

I nostri più cordiali saluti.
Avv. Annalisa Rosiello Avv. Chiara Vannoni

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