Diversity management: guardare la diversità come elemento della realtà, anche normativa, e agire di conseguenza
Le differenze sono elemento della realtà e la legislazione – da quella della sicurezza a quella antidiscriminatoria, che qui interessano – tiene naturalmente in considerazione questo dato di fatto.
L’art. 28 del d.lgs. n. 81/2008 stabilisce che il datore ha il dovere di valutare “tutti i rischi per la sicurezza, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato…e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza…, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione”; fin dal primo articolo del d.lgs. 81/2008, dove si esprimono le finalità della normativa sulla salute e sicurezza, si prevede la “tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”.
In teoria e anche in pratica, quindi, la promozione della salute nei luoghi di lavoro, la prevenzione e la tutela non possono essere destinate a un soggetto neutro, che tende a coincidere con il tipo maschio-quarantenne-in salute-di nazionalità italiana: con riguardo agli specifici gruppi di lavoratori presi in considerazione dalla normativa richiamata, le misure che il datore di lavoro deve mettere in campo devono essere maggiori e, comunque, differenti e più mirate rispetto a quelle rivolte alla genericità dei lavoratori (o al lavoratore in senso neutro).
C’è poi da considerare che i gruppi di lavoratori citati dalla normativa della sicurezza tendono a coincidere con quelli riportati dalla normativa antidiscriminatoria [1], dalla quale infatti ricaviamo questo elenco di fattori di rischio: sesso, razza, origine etnica, nazionalità, religione, disabilità, età, orientamento sessuale (e inoltre: convinzioni personali, orientamento o attività sindacale, orientamento politico).
Come può osservarsi, i gruppi/fattori considerati dalla legislazione richiamata – rispettivamente in materia di sicurezza e di discriminazioni – trovano molteplici corrispondenze: in particolare sono identici i fattori genere/sesso ed età; anche il fattore di rischio provenienza da altri paesi trova corrispondenza nel divieto di discriminazione per nazionalità sancito dal d.lgs. n. 286/1998 e, indirettamente, nei fattori di discriminazione relativi a razza, origine etnica, e per taluni aspetti, religione. Con riguardo alla disabilità, pure non elencato tra i fattori di rischio all’interno dell’art. 28 d. lgs. n. 81/2008, deve comunque farsi riferimento a tutta le norme promozionali, preventive e repressive posta a tutela della salute e degli altri diritti fondamentali delle persone con disabilità; tali disposizioni comprendono quella sui ragionevoli accomodamenti contenuta nel d. lgs. n. 216/2003 di cui parleremo, che si pone tanto come norma di promozione della salute e di integrazione della persona disabile, quanto come norma di prevenzione e, infine, come norma repressiva delle discriminazioni.
Riteniamo che questa corrispondenza non sia casuale: è infatti notorio che le persone maggiormente a rischio salute, le persone più “fragili” per ragioni legate a caratteristiche fisiche, o a caratteristiche socio-economiche, ambientali e personali sono anche quelle maggiormente soggette a discriminazioni perché considerate dalle imprese meno produttive, meno proattive, meno inclini all’adattamento e comunque “più problematiche”.
E questi gruppi sono quelli maggiormente all’attenzione del diversity manager, che studia e valuta – assieme al datore di lavoro, alle figure della sicurezza e agli altri referenti aziendali e sindacali – misure adeguate per prevenire i rischi specifici e, contemporaneamente, per favorire la piena inclusione di tutte le diversità, la loro valorizzazione e per scongiurare l’insorgenza di condotte discriminatorie, marginalizzanti o moleste; un’attenta considerazione delle diversità, peraltro, può trasformarsi in opportunità e portare benefici di vario tipo al lavoratore, all’azienda – anche in termini di ritorno di immagine – e alla collettività [2].
La mancata attuazione delle misure differenziate
Invece, nel caso in cui l’azienda non svolga un’adeguata prevenzione, tale condotta potrebbe dare luogo a un’inadempienza rispetto alla normativa in materia di salute e sicurezza sopra richiamata, fonte di specifica responsabilità, e collocarsi anche sul filo di una condotta discriminatoria; infatti laddove situazioni sensibilmente diverse, che per legittime finalità andrebbero necessariamente e per legge trattate in maniera differente, venissero inappropriatamente trattate in maniera identica, potrebbe venire a crearsi il terreno fertile per discriminazioni, azioni moleste e pressioni nei riguardi di lavoratori e lavoratrici appartenenti ai gruppi in esame.
Questo ragionamento può essere replicato in tutti i casi in cui sia possibile operare una sovrapposizione tra fattori di rischio e fattori discriminatori, perché analoghe sono le esigenze di protezione, l’esposizione a rischi particolari e significativamente diversa è la situazione rispetto alla c.d. normalità dei lavoratori (o, come si diceva, al lavoratore considerato in senso “neutro”).
Esaminiamo ora, brevemente, i principali fattori di rischio salute e discriminazioni e le possibili misure di protezione e valorizzazione specifica o di diversity management.
Fattore “genere/sesso”
I rischi legati alle differenze di genere possono riguardare – oltreché la gravidanza e il puerperio – la sfera fisica [3] e quella socio-economica (statisticamente: maggiori carichi familiari e minori introiti); con riguardo a questo ultimo aspetto, le donne sono esposte a più elevato rischio stress lavoro-correlato rispetto all’uomo, per le difficoltà alla conciliazione vita-lavoro e per la frustrazione legata alla non corrispondenza sforzi-ricompense. Infine va considerata la maggiore esposizione delle donne al rischio di molestie sessuali, tanto che il legislatore ha specificato l’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c., estendendolo alle molestie morali e sessuali, e prevedendo adeguate e specifiche azioni, anche di tipo formativo e informativo, per prevenirle [4].
In questi casi le misure diversificate passano dalla promozione dello smart-woking, su cui le lavoratrici madri hanno un diritto di precedenza sugli altri lavoratori [5], all’introduzione di codici di condotta contro le discriminazioni, le molestie e le molestie sessuali o alla stipula di accordi che prevedano tolleranza zero contro le molestie e altre misure simili.
Riteniamo che l’adozione di misure o azioni adeguate non costituisca un semplice indirizzo morale per il datore di lavoro: essa – se il rischio viene rilevato o dovrebbe essere rilevato nel contesto concreto – costituisce un vero e proprio obbligo derivante dall’art. 2087 cod. civ. e dall’art. 28 del d.lgs. 81/2008. Ciò comporta conseguenze risarcitorie in caso di danni e anche – a certe condizioni – la delineabilità di una discriminazione di tipo indiretto per omessa o insufficiente considerazione di situazioni sensibilmente dissimili che investono anche la salute delle persone.
La non adozione di queste misure, inoltre, potrebbe addirittura sfociare in molestia. Si pensi, per esempio, al caso della lavoratrice che al rientro dalla maternità, anziché essere supportata nelle proprie esigenze di conciliazione venga ostacolata, marginalizzata dal contesto perché ritenuta meno disponibile e produttiva. I casi di questo tipo sono ancora molto numerosi e marcano la presenza ancora diffusa di una scarso rispetto e considerazione delle differenze di genere secondo quanto stabilito dalla normativa in tema di sicurezza (oltreché, naturalmente, da quella antidiscriminatoria).
Fattore “provenienza da altri Paesi”
Molto frequente, specialmente in settori produttivi come quello agricolo, della grande industria, dei multiservizi e pulizia, è la presenza di un elevato numero di lavoratori stranieri.
Tale categoria di lavoratori presenta, nello svolgimento della prestazione lavorativa, una serie di rischi specifici legati al tema dell’integrazione.
La criticità principale e immediata si riscontra nella scarsa o nulla conoscenza della lingua, tale da porre i lavoratori stranieri in una posizione di svantaggio.
Tale rischio, se non adeguatamente preso in considerazione in sede di valutazione dei rischi può portare a un duplice ordine di difficoltà per il lavoratore: il più evidente è quello connesso al verificarsi di infortuni o malattie professionali, incluse quelle legate allo stress lavoro correlato (per il deficit relazionale che potrebbe venirsi a creare). Fondamentale è dunque riconoscere questo fattore di rischio, svolgere opportune e adeguate azioni o adottare misure adeguate per favorire il processo di integrazione dei lavoratori stranieri (corsi di lingua, corsi specifici in tema di sicurezza sul lavoro, ecc.).
Questione parzialmente diversa che non necessariamente investe il tema salute (a meno che non procuri stress nello svolgimento del rapporto) è quella relativa alle modalità con cui si manifesta, anche con condotte o atteggiamenti esteriori, il credo religioso.
C’è il caso in cui i lavoratori potrebbero avere la necessità di allontanarsi per brevi periodi durante il lavoro per recitare le preghiere, o la necessità di non avere contatto con la carne di maiale, o la libertà di indossare segni esteriori del loro credo (crocifisso, velo per le donne islamiche, ecc.).
Queste situazioni possono essere gestite ricercando un contemperamento tra le esigenze organizzative e di sicurezza (ad esempio quelle di non lasciare sguarnito l’impianto) e le esigenze del lavoratore di professare la propria fede in maniera libera anche sul luogo di lavoro.
Ma la criticità legata al credo religioso che sfocia maggiormente in fattore di rischio deve essere riscontrata nei periodi di digiuno, pratica trasversale a tutte le religioni ma particolarmente rigorosa per i lavoratori di fede islamica nel periodo di ramadan, con le relative conseguenze in termini di debolezza, fragilità e fatica nello svolgimento delle mansioni e con tutti i presumibili e prospettabili rischi.
Anche in questo caso il datore di lavoro potrebbe porre in essere una serie misure atte a tutelare la salute del lavoratore per quello specifico periodo dell’anno quali l’assegnazione a diverse mansioni – segnatamente, più leggere – per permettergli di lavorare in sicurezza.
Diversamente rischia di violare – contemporaneamente – la normativa sulla tutela della salute e quella antidiscriminatoria, come abbiamo già detto.
Fattore “età”
I problemi legati all’invecchiamento sono noti (calo di vista, indebolimento dell’udito, indebolimento dell’apparato muscolo scheletrico, problemi alla circolazione del sangue, ecc.) e in questi casi le misure possono essere anche attinte dalle nuove tecnologie e vanno dalla progettazione di linee dedicate e più lente [6], ad esoscheletri indossabili e allo smart-working (i lavoratori non più giovani potrebbero trarre giovamento dai più brevi spostamenti), dalla progettazione di sistemi di illuminazione, alla progettazione di software più semplici da utilizzare, dal curare la corretta insonorizzazione /predisposizione di appositi segnali acustici o vibrazioni, alla formazione mirata (tecnologica e anche sulle cd. soft skills), dalla diversa organizzazione dei turni di lavoro, alla diversa distribuzione degli incarichi, e così via.
Al contrario, la loro mancata adozione può causare danni anche per l’insorgenza o l’aggravamento di patologie legate all’età: l’adozione di misure specifiche non ha per il datore di lavoro un mero valore programmatico, ma è un obbligo dettato dalla normativa in materia di sicurezza; inoltre la mancanza di misure mirate può sfociare, come già detto per il fattore genere, in condotte discriminatorie o moleste.
Fattore “disabilità”
Ma esiste un ambito in cui opera un vero e proprio nesso tra la mancata adozione di misure anche legate alla salute, sicurezza, inclusione e discriminazione.
E’ il fattore disabilità, che attraverso la normativa sui ragionevoli accomodamenti ha un forte impatto sull’organizzazione del lavoro e sulla tutela della persona.
Si tratta di una normativa, contenuta nel D.lgs. 216/2003, art. 3, 3-bis, che impone al datore di lavoro di adattare l’organizzazione del lavoro e della produzione alla persona con disabilità; ciò a condizioni di ragionevolezza e sostenibilità (economica ma non solo).
Le misure obbligate possono essere di tipo architettonico, ambientale, biomedico, ingegneristico, logistico, organizzativo, formativo, ecc..
Qualora l’azienda non dovesse adottare queste misure la sanzione è quella della nullità sancita dal diritto antidiscriminatorio (v. sempre D.lgs. 216/2003) [7].
Si ricorda infatti che la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, richiamata dal nostro legislatore, equipara il rifiuto di adottare un accomodamento ragionevole a una discriminazione.
Sul fronte delle possibili misure occorre ricordare che esiste un fondo dell’Inail che prevede un aiuto per le imprese che attuano progetti di inserimento, reinserimento e formazione destinati alle persone con disabilità, per cui le aziende potrebbero affrontare questi cambiamenti a costi veramente contenuti [8].
E, come si può intuire, tutta la strumentazione di cui abbiamo parlato a supporto delle persone in età avanzata – soprattutto se la ricerca porta a un miglioramento delle prestazioni prestazioni e a un abbattimento dei costi – potrebbe costituire un ragionevole accomodamento per le persone con disabilità.
Osservazioni conclusive
Con questo contributo si è inteso sottolineare come la “diversità” in azienda vada tutelata in ottica di miglioramento delle condizioni di lavoro e di benessere anche generale; questo perché i soggetti a rischio “sicurezza” coincidono per molta parte a quelli esposti a rischio discriminazione.
Come abbiamo illustrato, per le categorie indicate, la linea di confine tra la violazione dell’art. 2087 cod.civ. e dell’art. 28 d.lgs. e le discriminazioni è molto labile, così come è sottile la differenza tra le misure preventive e rimediali stabilite dall’art. 2087 cod. civ. e le soluzioni ragionevoli previste per le persone con disabilità. E la sfida per il diversity manager è quella di estendere le soluzioni ragionevoli – mutatis mutandis – anche agli altri ambiti (genere, provenienza da altri paesi ed età) [9].
Peraltro lavorare in questa direzione riveste senza dubbio un alto valore etico e sociale, attuandosi uno specifico scopo previsto dalla Costituzione, che è quello per il quale l’attività economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (v. art. 41, comma 2° cost.).
Senza trascurare che queste politiche renderebbero l’azienda più appetibile per i lavoratori: un’azienda smart, moderna, etica e rispettosa dei diritti e delle esigenze dei lavoratori, più facilmente attrae (e trattiene a sé) i talenti.
[1] D.lgs. n. 198 dell’11 aprile 2006 (c.d. Codice delle pari opportunità), dd. llggss. nn. 215 e 216 del 9 luglio 2003, d.lgs. n. 286/98, art. 15 l. 300/70.
[2] Le disfunzioni organizzative e le discriminazioni provocano spesso, come noto, malattie di vario genere e la perdita del lavoro, con costi a carico del Servizio Sanitario, dell’Inps senza considerare la diminuzione del benessere a livello familiare, sociale e collettivo.
[3] Ad esempio, per l’osteoporosi cui è maggiormente esposta la donna sono da evitare posture inadeguate, trasporto e movimentazone carichi pesanti, lavorazioni su pavimenzioni scivolose, ecc.).
[4] La legge di bilancio per il 2018 (l. 205/2017, comma 218) – in modifica all’art. 26 D.lgs. 198/2006 3-ter. – ha previsto espressamente quanto segue: “I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su princìpi di eguaglianza e di reciproca correttezza”.
[5] Lo smart-working è previsto con criterio di priorità solo alle lavoratrici entro il terzo anno dal parto e ai lavoratori con figli con disabilità; la legge di bilancio per il 2019 (l. 145/2018, comma 486), è intervenuta sulla l. 81/2017, introducendo un comma all’art. 18: “Art. 18, comma 3-bis. I datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile sono tenuti in ogni caso a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità previsto dall’articolo 16 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, ovvero dai lavoratori con figli in condizioni di disabilità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104”; già l’art. 42, D.lgs. n. 198/2006 prevede il dovere di azioni volte a “favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi”. Il Diversity manager dovrebbe considerare anche altre situazioni di svantaggio. Ad esempio nella pubblica amministrazione, i criteri di priorità nell’accesso allo smart-working riguardano “coloro che si trovano in situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare e dei/delle dipendenti impegnati/e in attività di volontariato” (linee guida lavoro agile Pubblica Amministrazione, luglio 2017).
[6] Ricordiamo un esempio emblematico di come il diversity management sia utile tanto per tutelare la salute, quanto per prevenire le discriminazioni, la marginalizzazione e le condotte moleste; il caso è quello iniziato nel 2007 in uno stabilimento BMW nella Baviera meridionale. Si è trattato di un esperimento pilota nell’unità cambi caratterizzato dalla costruzione di una linea più lenta, cui sono stati addetti per circa il 30% operai over 50 anni e per il 18% operai con età inferiore ai 30 anni (più esposti a rischi legati all’imperizia).
Quest’azienda, anziché proporre ai lavoratori non più giovani – come spesso accade – un incentivo per lasciare il lavoro o anziché relegarli a ruoli marginali, ha optato per un investimento, peraltro contenuto, volto a valorizzarne le potenzialità; di fatto vi è stato un forte coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte organizzative e l’esperienza pilota ha generato incrementi di produttività, diminuzioni dell’assenteismo, grande affiatamento dei gruppi di lavoro e – come dicevamo – un ritorno di immagine per l’azienda; v. Carlo Des Dorides, “Politiche di active aging, un’opportunità per le aziende”, a questo link https://www.aidp.it/hronline/2016/1/1/politiche-di-activeageingunopportunita-per-le-aziende.php
[7] V. tra le altre Tribunale di Ivrea, 24 febbraio 2016, Ordinanza dott. Fadda; è il caso di una lavoratrice disabile era stata licenziata perché, per gravi problemi alla schiena, era stata ritenuta non idonea alle mansioni. La lavoratrice si rivolgeva al Tribunale sostenendo che il suo licenziamento fosse illegittimo in quanto con piccoli accorgimenti la società avrebbe potuto rendere la postazione di lavoro (e conseguentemente le mansioni affidate alla lavoratrice) compatibile con le sue condizioni di salute. Il Giudice, tra le varie prove, disponeva una Consulenza Tecnica per verificare “se fosse possibile – senza stravolgere la produzione – posizionare all’interno del reparto dove lavorava la signora, due pedane oleodinamiche che consentissero di elevare cassoni con sponde abbattibili contenenti i pezzi grezzi e lavorati, in modo da eliminare o grandemente diminuire i piegamenti degli addetti ai macchinari stessi, quantificando i relativi costi”. Il caso si è concluso con la reintegrazione della lavoratrice, dal momento che il Giudice ha accertato che “la soluzione tecnica per evitare un eccessivo sforzo della schiena della ricorrente” (che, quotidianamente doveva compiere tra le 400 e le 600 flessioni, di ampiezza variabile a seconda del riempimento dei cassoni) prevedeva un esborso di circa 10.000,00 euro, vale a dire, in rapporto al fatturato, una cifra assolutamente modesta ragionevole e proporzionata agli interessi di causa.
[8] L. 23 dicembre 2014, n. 190, comma 166, che regolamenta i sostegni Inail per gli accomodamenti ragionevoli a favore delle persone con disabilità, e successive integrazioni.
[9] Alidadi K. (2012), Reasonable Accommodations for Religion and Belief: Adding Value to Article 9 ECHR and the European Union’s Anti-Discrimination Approach to Employment?, in European Law Review, 2012, n. 6 (http://www.iuscommune.eu/html/prize/pdf/2013_Alidadi.pdf) ha affermato che il concetto di soluzione ragionevole non è intrinsecamente legato alla caratteristica della disabilità; infatti secondo un Autore la sua utilità si estende, ad esempio, “alle minoranze religiose, alle donne in gravidanza o in allattamento e ai dipendenti con funzioni di cura, in cui i meccanismi di esclusione sono spesso molto simili a quelli della disabilità e non meno problematici rispetto a una prospettiva di uguaglianza. Lo stesso dicasi, secondo la nostra prospettazione, con riguardo ai lavoratori in età avanzata.
Questo articolo è apparso su Quaderni Aifos del giugno 2019.