a

Pubblicazioni

Equivalenza delle mansioni e demansionamento: la giurisprudenza recente

17.03.2021 | Pubblicazioni

Pubblicazioni

Chiara Vannoni – Avvocato Giuslavorista in Milano, ottobre 2011

Nel diritto del lavoro – e segnatamente, nello svolgimento concreto del rapporto lavorativo – il tema delle mansioni, dei limiti e dei contenuti delle stesse ha certamente portata centrale ed è fonte e motivo di analisi ed interpretazione giurisprudenziale, soprattutto con riferimento a fattispecie concrete per così dire patologiche, ossia nei casi in cui una delle parti del rapporto – generalmente, il lavoratore – lamenta un inadempimento rispetto all’obbligo contrattuale che incombe sul datore di lavoro.
In dottrina e giurisprudenza è pertanto ricca l’analisi che ruota intorno al concetto di “equivalenza delle mansioni” e, pertanto, sui limiti dello jus variandi in capo al datore di lavoro (che porta poi a definire il “demansionamento”).

Il dato normativo di riferimento, l’art. 2103 c.c., è difatti uno dei più importanti nella panoramica del diritto del lavoro, e di sicuro la norma citata è una delle più rigide e cogenti: come noto, l’art. 2103 c.c. pone l’obbligo, in capo al datore di lavoro, non solo di “far lavorare” il dipendente, garantendo quindi effettività al contratto e, soprattutto, non si esaurisce con il sinallagma “prestazione contro retribuzione”, tutelando invece, quale bene ulteriore, la professionalità del dipendente e specificando quindi il contenuto dell’obbligo datoriale, che è – appunto – quello di adibire il lavoratore alle mansioni di assunzione. La norma prevede l’ipotesi di svolgimento, in fatto, di mansioni superiori; di contro, la stessa previsione codicistica nega invece, recisamente la possibilità di modifica (unilaterale, o contrattuale) in pejus delle mansioni: l’eventuale demansionamento o dequalificazione si configura pertanto come un inadempimento datoriale e vero e proprio illecito contrattuale.
Questa breve analisi partirà dai più recenti risultati di dottrina e della giurisprudenza chiamata a pronunciarsi in materia, ponendo particolare attenzione alle problematiche attinenti al regime probatorio e ai danni conseguenti, e risarcibili.

Brevemente: l’analisi della normativa di riferimento.
Come sopra accennato, la norma di riferimento è l’art. 2103 c.c., rubricata “prestazione del lavoro”, ai sensi della quale “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito. (…) Ogni patto contrario è nullo”. La norma di cui all’art. 2103 è inderogabile, chiaro esempio di una previsione cogente che non lascia spazio a modifiche peggiorative determinate o da una volontà unilaterale, ovvero anche di un accordo in tal senso delle parti.
Il precetto civilistico presenta una stretta correlazione con importanti principi costituzionali: l’art. 4, sancendo il diritto al lavoro riconosce il diritto ad impegnare concretamente e proficuamente le energie lavorative, letto unitamente all’art. 35 Cost., consentono di ritenere infatti il lavoro non solo e non tanto come fonte di sostentamento, ma altresì come strumento imprescindibile per la realizzazione della personalità del lavoratore.
La lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2103 c.c. quindi permette di ritenere che nel nostro orientamento non figuri solo un diritto alla mansione, ma altresì sia tutelato uno specifico diritto alla qualifica e alla professionalità.
A fianco delle norme costituzionali e civilistiche, grande importanza – nella individuazione delle mansioni è rivestita dalla contrattazione collettiva, che con il sistema di qualifiche e declaratorie consente la verifica formale della corrispondenza tra le mansioni di assunzione (ovvero quelle successivamente acquisite) con quelle concretamente svolte.
Certamente la stessa norma di cui all’art. 2103 c.c. consente al datore di lavoro di variare le mansioni già disposte in sede di assunzione: il limite è però quello della equivalenza delle mansioni: l’illecito esercizio di quello che è definito lo jus variandi integra la fattispecie di c.d. demansionamento.
Nel regolare lo jus variandi in capo al datore di lavoro, infatti, l’art. 2103 c.c. prevede si la possibilità di adibire il dipendente a nuove mansioni, in relazione a esigenze organizzative dell’impresa, ciò però a condizione che siano rispettate sia l’equivalenza delle mansioni, che il patrimonio professionale del dipendente, attuale e potenziale.
E’ radicalmente esclusa la possibilità per il datore di lavoro di costringere il dipendente ad una forzata inattività.
Pertanto, si configura un illegittimo demansionamento allorquando il lavoratore è adibito, temporaneamente ovvero in modo permanente, a mansioni il cui contenuto e la cui qualità e quantità sia inferiore rispetto a quelle già svolte: tale condotta datoriale determina un inadempimento contrattuale idoneo a determinare un danno patrimoniale e non patrimoniale in capo al lavoratore.
***
Posto il sopra ricordato carattere inderogabile della norma di riferimento, si ricorda – pur brevemente – che il c.d. “patto di demansionamento” è ammesso in circostanze ed ipotesi del tutto eccezionali e chiaramente indicate quali deroghe all’art. 2103 c.c.: tali sono, ad esempio, l’art. 4, comma 11, L. 223/1991 ovvero l’art. 7, D.Lgs. 151/2001 in materia di tutela della maternità, che prevede l’adibizione a mansioni inferiori della lavoratrice in gravidanza nel caso in cui quelle di assunzione siano ricompresse tra le mansioni a rischio o comunque interdette in relazione al peculiare stato della lavoratrice.

Il demansionamento in senso formale e sostanziale: l’equivalenza delle mansioni.
Come sopra accennato, lo jus variandi consente al datore di lavoro di assegnare il proprio dipendete a nuove mansioni, con il limite della equivalenza: il demansionamento si configura allorquando le mansioni successivamente attribuite ad un lavoratore siano di contenuto “inferiore” rispetto a quelle in precedenza svolte. Nodo cruciale della questione sono pertanto i criteri distintivi per comprendere se le mansioni siano equivalenti ovvero, effettivamente, deteriori.
La giurisprudenza sul punto è ormai costante nell’affermare che tale comparazione non può essere limitata ad una comparazione formale, con riferimento alle declaratorie contrattual-collettive, essendo invece necessario una analisi sostanziale, che analizzi il contenuto delle stesse. Tra le altre, si segnala una pronuncia del Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, che ha sottolineato la necessità per cui il concetto di equivalenza delle mansioni non può essere considerata solo in astratto, cioè in base a una comparazione in relazione al livello contrattuale; tale comparazione costituisce infatti – osserva il Tribunale – solo il primo necessario momento di analisi, dovendo la equivalenza sussistere (ed essere dimostrata) in concreto.
Tale pronuncia rispecchia un orientamento orami consolidato in sede di legittimità, per cui è pacificamente riconosciuto che “nell’effettuare tale comparazione (tra nuove e vecchie mansioni, NdR), non è sufficiente peraltro ancorarsi in astratto al livello di categoria, ma occorrerà accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e l’accrescimento delle capacità professionali”.
Oggetto di valutazione è pertanto il contenuto concreto delle mansioni, da un punto di vista qualitativo e quantitativo: la valutazione della asserita inattività, o parziale inattività passa anche per la verifica del tempo utilmente speso nello svolgimento di una prestazione lavorativa; mentre l’aspetto qualitativo del demansionamento (in questo senso, dequalificazione), riguarda il mantenimento, in capo al lavoratore, della professionalità già acquisita con riferimento alla possibilità di impiego utile delle competenze (mantenimento) e della concreta opportunità di accrescimento delle stesse.
Dal momento infatti che anche la professionalità è stabilita essere modo di esplicazione della propria personalità, l’obbligo del datore di lavoro è quello di preservarla e, possibilmente, contribuire alla progressione della stessa.
Il metodo comparativo, così esplicato, è recepito e pacificamente utilizzato anche dalla più recente giurisprudenza di merito, che pur riconoscendo il ruolo esemplificativo delle declaratorie contrattuali evidenzia sempre maggiormente come tale indicazione sia solo, per così dire, punto di partenza dell’analisi.

L’onere della prova.
Dal punto di vista processuale, grande rilievo è dato – comprensibilmente – all’aspetto probatorio del lamentato demansionamento.
Il criterio generale del riparto dell’onere probatorio di fattispecie di inadempimento delle obbligazioni (vertendosi senza dubbio in questo ambito) è certamente accolto dalla giurisprudenza maggioritaria, con alcune precisazioni però.
Il principio generale sul riparto dell’onere della prova insegna infatti che il creditore, che lamenta un inadempimento contrattuale, deve limitarsi a provare la fonte legale o contrattuale del proprio diritto e alla allegazione dell’asserito inadempimento di controparte, su cui grava, di contro, l’onere di allegare e dimostrare l’esatto adempimento (il c.d. “fatto estintivo”): la giurisprudenza prevalente è orientata nell’applicazione del principio riferito.
Il lavoratore che lamenta il demansionamento o la dequalificazione deve pertanto allegare la fonte del proprio rapporto (contrattuale) e del proprio diritto (art. 2103 c.c.), oltre all’inadempimento di controparte su cui grava l’onere inverso di dimostrare (sollecitando il giudizio di equivalenza delle mansioni) il proprio esatto adempimento.
Si segnala una recente pronuncia del Tribunale di Roma, che partendo dalla sottile distinzione tra demansionamento (inteso come “attribuzione di mansioni quantitativamente scarse”) e “dequalificazione” (cioè, mansioni non equivalenti a quelle della qualifica di appartenenza), arriva a riconoscere un diverso onere probatorio: in ipotesi di dequalificazione (cioè, dal punto di vista qualitativo), l’onere della prova in capo al lavoratore arriva a ricomprendere anche i fatti costituitivi del proprio diritto con riferimento anche al contenuto delle mansioni; mentre nel caso di demansionamento (dal punto di vista quantitativo) l’onere dell’esatto adempimento spetta ancora integralmente al datore di lavoro, che deve dimostrare di avere consentito l’esercizio del diritto alla piena prestazione lavorativa.
A parere di chi scrive, in realtà, la differenza è più terminologica che sostanziale, dal momento che generalmente dequalificazione e demansionamento (nelle due accezioni qualitative e quantitative di cui sopra) si sovrappongono, chiedendo pertanto al lavoratore l’allegazione delle mansioni precedenti, asseritamente superiori, e di quelle successive e considerate inferiori, sia qualitativamente che quantitativamente.
Dal punto di vista concreto infatti il raffronto è svolto sia sul contenuto professionale delle mansioni (con riferimento, ad esempio, all’autonomia decisionale, ai referenti aziendali, alla fungibilità o meno delle mansioni rispetto ad altri colleghi), che sul tempo di lavoro effettivamente impiegato.

I danni risarcibili: in particolare, la risarcibilità del danno non patrimoniale nella componente esistenziale. Il ruolo delle presunzioni.
Per quanto riguarda i danni risarcibili, si osserva che principio acquisito dell’ordinamento è quello della integrale risarcibilità del danno, pertanto non solo in relazione agli aspetti patrimoniali, ma anche con riferimento ai danni non patrimoniali anche nelle componenti morali ed esistenziali, .
Con riferimento al danno patrimoniale, nella componente di danno alla professionalità, la giurisprudenza valorizza le presunzioni ex art. 115 c.p.c., e in generale i criteri di comune esperienza, quali durata del demansionamento ovvero dequalificazione, tipo di professionalità, esito della dequalificazione, al fine di individuare l’esistenza del danno.
Infatti, è principio recepito quello per cui il danno, pur non potendosi considerare in re ipsa, come conseguenza automatica ed ineliminabile del demansionamento o della dequalificazione, può – nondimeno – essere provato e dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti, e quindi anche attraverso la prova per presunzioni.
Una volta raggiunta – anche mediante presunzioni – la prova del danno, la liquidazione dello stesso non può che avvenire in via equitativa ex art. 1226 c.c. con riferimento alla retribuzione percepita dal lavoratore che diventa quindi parametro quanto più oggettivo per la determinazione del danno.
***
Per quanto riguarda la configurabilità di un pregiudizio ascrivibile alla categoria del danno non patrimoniale, con particolare riferimento al danno esistenziale, si osserva che la materia è sicuramente dibattuta, soprattutto a seguito di due interventi contrastanti delle Sezioni Unite, che di certo non hanno contribuito a fare grande chiarezza sul punto.
L’applicazione del principio di integrale risarcibilità del danno alla persona dovrebbe, in ogni caso, condurre ad accogliere anche in ipotesi di demansionamento il risarcimento di un danno non patrimoniale, ascrivibile – almeno a livello definitorio ed esplicativo – al danno esistenziale, proprio facendo leva sulle considerazione già svolte sopra, che consentono di ricondurre il diritto alle mansioni a precetti costituzionali ben individuati e pertanto, meritevoli di particolare tutela.

Condividi questo articolo