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Gli aspetti sostanziali del licenziamento disciplinare, Relazione di Chiara Vannoni al convegno AGI del 14 marzo 2017

22.03.2021 | Pubblicazioni

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Il lavoratore illegittimamente licenziato per via disciplinare, secondo il Jobs act,  non dovrebbe mai (o quasi mai) essere reintegrato. Ma è davvero così? Una lettura costituzionalmente orientata dei testi normativi, i principi generali e il favor risultante dalle previsioni dei contratti collettivi tendono ad aprire interessanti spazi interpretativi per riaffermare il diritto alla reintegrazione anche dei lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015.

 

Nel mio intervento cercherò di tracciare lo “stato dell’arte” tra Fornero e CTC, evidenziando gli elementi ancora più discussi e discutibili e cercando di individuare soluzioni interpretative e pratiche: credo però che più che risposte riuscirò soltanto a parlare di dubbi.

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Partiamo da un dato di fatto:

a due anni dall’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015, che abbiamo imparato a chiamare “amichevolmente” – ma non troppo – “Contratto a tutele crescenti”, stiamo vivendo una sorta di limbo, nel senso che ci troviamo ad affrontare  – come avvocati – una “coda lunga” di ricorsi Fornero sia per quanto riguarda i licenziamenti per motivi economici, sia per quanto riguarda i licenziamenti per motivi disciplinari.

L’ultimo rapporto INPS sul precariato ci fornisce il dato secondo cui nel corso del 2016 vi sarebbe stato un aumento dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (in sostanza, dei licenziamenti disciplinari), rispetto all’anno precedente: si parla di un aumento di circa 15.000 unità di licenziamenti per motivi soggettivi nel 2016. pur non avendo il dato disaggregato, e pur dovendo considerare che questo dato conta i singoli “movimenti”, cioè ogni attivazione e ogni cessazione di rapporto comunicato – che possono quindi interessare nello stesso anno la stessa persona in più occasioni – è comunque un rilievo che ci consente qualche riflessione.

Che riflessione, dunque?

  • che i licenziamenti per motivo disciplinare a cui stiamo assistendo sono ancora tutti quelli nell’area ex fornero
  • che le cessazioni dei CTC avvengono tutte per motivi economici

perché questo?

Per la grande incertezza che comunque stiamo vivendo, dal momento che l’intento chiarificatore del Legislatore del 2015 per ora non ha ancora affrontato il banco di prova della giurisprudenza e perché le stesse questioni che pretendeva di chiarire hanno condotto a nuovi problemi interpretativi.

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Fatta questa piccola premessa, però, dobbiamo anche considerare che la fattispecie “licenziamento disciplinare” continua ad esistere, ci sembra importante capire cosa potrà essere salvato dell’interpretazione data dalla dottrina e dalla giurisprudenza alla Legge Fornero rispetto invece a quanto previsto dal CTC.

Di certo, nel giro di tre anni scarsi abbiamo avuto ben due riforme “epocali”, che hanno determinato il completo rovesciamento del paradigma dell’art. 18: siamo passati dalla reintegrazione sempre alla reintegrazione mai, o quasi mai.

Le riforme diventano tre, in cinque anni, se consideriamo anche il Collegato Lavoro.

Tutti questi sono elementi che vanno ad aggravare lo stato di incertezza.

Insomma, come spesso capita, facciamo un passo indietro per cercare di farne uno avanti.

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Primo problema per l’interprete è stato riempire di significato la locuzione del tutto nuova presente nel comma 4 dell’art. 18 versione Fornero e in particolare l’“insussistenza del fatto contestato”: fatto giuridico o fatto materiale?

Anche qui non mi soffermo sull’evoluzione giurisprudenziale che sarà materia dell’intervento per il Collega Quarto, richiamo unicamente la querelle che si è avuta tra i sostenitori del “fatto come puro fenomeno storico”, quindi un comportamento commissivo o omissivo in senso naturalistico, e i sostenitori del fatto come “giuridico”, cioè quale fatto/inadempimento comprensivo di tutti i suoi elementi di carattere oggettivo e soggettivo quindi dolo, colpa, grado in intensità dell’elemento soggettivo, imputabilità, rilevanza.

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La giurisprudenza di merito si è grossomodo da subito compattata intorno alla tesi del fatto giuridico, quindi inteso come accadimento comprensivo di condotta, diligenza nell’esecuzione, colpa nell’inadempimento: “la nozione di fatto valevole ai fini della scelta della sanzione non può che comprendere tutto il fatto nella pienezza dei suoi elementi costitutivi, sia elemento oggettivo quindi che soggettivo”.

Pertanto, laddove il Giudice non ravvisava la sussistenza di tutti gli elementi del “fatto”, quindi il dato materiale e il dato soggettivo, riteneva il fatto insussistente e applicava quindi il 4 comma dell’art. 18 disponendo la reintegrazione.

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Come siamo arrivati quindi a vedere cristallizzata in una norma la locuzione “fatto materiale”?

Da un arresto della giurisprudenza di legittimità che ha sposato la tesi del fatto materiale, precedente peraltro poi contraddetto da giurisprudenza successiva, che è ritornata sulla tesi del fatto giuridico: vero è che ora per quanto riguarda gli assunti dal 7 marzo 2015 la disciplina parla di “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione”.

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Il legislatore del 2015 ha quindi legato l’ipotesi eccezionale della reintegrazione alla sola “insussistenza del fatto materiale”, tra l’altro agganciandola ad una infelice formulazione che di primo acchito potrebbe addirittura far ipotizzare l’inversione dell’onere della prova dal momento che si parla di “insussistenza del fatto materiale direttamente dimostrata in giudizio”, potremmo quasi dire la sovversione dell’ordine comune.

Esclude del tutto qualunque giudizio di proporzionalità, con problemi anche di rilievo costituzionale (che in realtà sappiamo che potrebbero riguardare tutto l’impianto normativo, l’eccesso di delega e anche la compatibilità con le norme comunitarie che richiedono una “tutela effettiva” contro il licenziamento).

Elimina del tutto il richiamo alle sanzioni conservative, che consentivano la reintegrazione del lavoratore ed erano una sorta di “doppio paracadute” della proporzionalità.

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Possiamo quindi dire che ogni contrasto sorto in sede di applicazione e interpretazione della Legge Fornero sia risolta?

In realtà restano aperte questioni pesanti, ancora non risolte chiaramente e definitivamente in sede di interpretazione della Legge Fornero e che verosimilmente si trascineranno anche nel CTC.

a) partiamo dal fatto materiale sussistente, ma del tutto irrilevante, il fatto che non rappresenta un inadempimento, un fatto “neutro”;

b) vi è poi il caso del fatto materiale sussistente, ma commesso ritenendo di adempiere ad un obbligo o di rispettare una prassi

c) infine il fatto materiale sussistente e disciplinarmente rilevante, ma di lievissima entità: il caso di scuola del ritardo di pochi minuti.

In questi casi così tanto estremi la tesi del fatto giuridico consentiva di applicare l’art. 18 comma 4 e quindi la reintegrazione; eventualmente anche sulla base della previsione di una sanzione conservativa (nel caso per esempio del ritardo o di una assenza).

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Nel CTC e in questi casi in cui appunto il “fatto materiale” è sussistente, sarà possibile recuperare la  tutela reintegratoria?

A mio avviso il fatto materiale privo di effetto e di conseguenze giuridiche resta comunque un fatto neutro: anche nel CTC e al di là di una volontà definitoria che resta comunque atecnica il fatto di cui parliamo, il fatto che può determinare il licenziamento di un lavoratore, è inevitabilmente connotato giuridicamente.

La stessa norma d’altro canto non si arresta a parlare di “fatto materiale”, ma parla di “fatto materiale contestato”, laddove possiamo ritenere che la contestazione attenga non solo al dato formale della esistenza di una lettera di contestazione, ma anche ad una rilevanza disciplinare del fatto

Quindi in questo caso mi auguro che il fatto materiale sussistente, ma privo di effetti giuridici continui a restare irrilevante e quindi inesistente per il diritto.

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Vi chi sostiene la possibilità di invocare l’istituto della frode alla legge a fronte del recesso per giusta causa per un fatto di lievissima entità disciplinare: personalmente non sono convintissima di questa soluzione che presenta almeno due ordini di problemi a fronte di un comunque innegabile vantaggio che è quello della possibile reintegrazione:

il primo problema è di natura strettamente interpretativa: laddove l’art. 3 comma 1 stabilisce che la regola diventa la tutela indennitaria, salvo le eccezioni espressamente individuate, in linea di principio non vi è elusione della finalità sostanziale (in sostanza è come dire: io comunque posso licenziarti e la legge stabilisce una nuova regola, su cui non siamo d’accordo).

Inoltre, l’accento si sposterebbe anche sul dato dell’animus del datore di lavoro, con tutto quello che ne consegue in termini di difficoltà di prova in capo al lavoratore.

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Una pronuncia interessante di merito introduce invece l’aggancio al licenziamento pretestuoso, ossia quello intimato a fronte di un abbaglio del datore di lavoro, di un suo torto palese: pensiamo al caso di una lavoratrice licenziata per giusta causa, dove il fatto contestato – pure sussistente – risulta spiegato con una prassi aziendale sempre rispettata e mai smentita. In questo caso, dovrebbe potersi accedere alla tutela reintegratoria proprio per l’evidente erroneità della contestazione che non ha tenuto conto di una giustificazione intrinseca nel compimento dell’atto stesso.

Nei tre casi dubbi, quindi, sarebbero possibili spazi interpretativi che consentirebbero l’ampliamento della tutela reintegratoria anche al di là del solo “fatto materiale insussistente”.

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Abbiamo detto che con il CTC si perde un ulteriore elemento di novità della Legge Fornero, cioè la rilevanza delle previsioni dei CCNL .

Sappiamo bene infatti che il CCNL accede al contratto di lavoro e contribuisce alla sua regolamentazione e i CCNL contengono anche previsioni più o meno esplicite, più o meno dettagliate rispetto alle sanzioni disciplinare e alle mancanze che conducono all’applicazione di una sanzione invece di un’altra.

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Attraverso il riferimento alle esemplificazioni contenute nella contrattazione collettiva e nei codici disciplinari il giudice aveva la possibilità di recuperare un margine di apprezzamento circa la gravità del fatto sussistente e può quindi valutare se il criterio di proporzionalità già indicato in sede collettiva sia stato o meno rispettato.

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D’altro canto, già il Collegato Lavoro aveva introdotto timidamente la questione, laddove l’art. 30 comma 3 stabiliva che nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi.

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I problemi rispetto a questa sorta di rete di sicurezza per la reintegrazione sono stati e sono dovuti per di più al fatto che a livello normativo non si è tenuto in debita considerazione la ampiezza e in molti casi l’astrattezza delle formule utilizzate dai CCNL, con conseguenti problemi interpretativi

A livello interpretativo di merito si è assistito ad un diffuso riconoscimento dell’applicabilità di questa ipotesi, anche a fronte di tipizzazioni molto ampie: il Giudice quindi verificava la sussumibilità della circostanza concretamente contestata nella previsione, oppure in comportamenti analoghi, ampliando così le possibilità di reintegrazione.

La mancata riproposizione nel CTC del riferimento alle sanzioni conservative si spiega infatti con la ben chiara volontà del legislatore di arginare il più possibile l’attività interpretativa del giudice.

Peraltro, vi è da dire che i CCNL non hanno forse colto in pieno l’occasione di dettagliare maggiormente le casistiche disciplinari e le conseguenze.

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Le sanzioni conservative avranno quindi ancora spazio nel CTC?

Il tenore letterale della norma lo esclude.

Ma cosa possiamo aspettarci nel caso di licenziamento per giusta causa irrogato a fronte di una previsione collettiva che dispone la sanzione conservativa?

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Da una parte, si può ipotizzare un richiamo all’art. 30 del Collegato Lavoro unitamente ad un generale favor per il lavoratore: resta il problema che il tenore letterale della norma è piuttosto tranchant e potrebbe essere quindi difficilmente superabile l’eccezione per cui la reintegrazione accede solo a casi specifici, individuati attraverso la dicitura “esclusivamente”.

Inoltre si potrebbe sostenere che con il contratto di lavoro e con l’applicazione del CCNL il datore di lavoro si obbliga al rispetto di quanto stabilito anche nelle fonti contrattuali e cioè quindi non solo all’obbligazione retributiva ex art. 1372 c.c.

Parte della dottrina ha invece ipotizzato la possibilità per il lavoratore di chiedere, oltre ed in aggiunta al risarcimento ex art. 3, comma 1 – le famose due mensilità per anno di servizio – un ulteriore risarcimento ex art. 1218-1223 c.c.

Personalmente ho qualche dubbio sulla duplicazione del risarcimento e sulla sua sostenibilità, di certo questa tesi comunque abbraccia in toto la sola tutela indennitaria che resterebbe del tutto senza scalfittura.

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Infine, due parole sul tramonto della proporzionalità.

La sola tutela indennitaria in ipotesi di licenziamento illegittimo non è una novità del CTC, ma come abbiamo visto nella nuova disciplina è diventata la regola.

La valutazione della proporzionalità ricade(va), in ambito fornero, nel 5 comma dell’art. 18 come ben enunciato anche dalla giurisprudenza – ho riportato una sentenza proprio di Milano.

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Le differenze concrete tra Fornero e CTC non sono però trascurabili dal momento che nel CTC il Legislatore ha voluto marginalizzare il più possibile l’azione del Giudice, cercando di restringere gli spazi di interpretazione sia del fatto, come abbiamo visto, che della valutazione dell’adeguatezza  della sanzione.

Nella legge Fornero infatti il giudice poteva applicare il 2106 sulla base della possibilità di valutare ai fini del risarcimento circostanze differenti quali le condizioni delle parti, l’anzianità del lavoratore, il numero di dipendenti, mentre attualmente è chiaro che l’indennità è già predeterminata al momento del recesso.

Il Legislatore ha quindi in tutto sposato l’ottica della determinazione firing cost.

Sarà possibile recuperare una valutazione di proporzionalità in casi “normali”, cioè di fatto sussistente, rilevante, non previsto dalla contrattazione collettiva?

Sulla base della norma NO, con consistenti dubbi di costituzionalità della norma e di compatibilità anche rispetto al principio di “effettività della tutela” di derivazione comunitaria.

Qui sono scaricabili le slides citate nella relazione

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