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Il Processo Fornero e i diritti (offesi) dei lavoratori vittime del lavoro “malato” (e non solo di quelli) – Prima parte: Processo e licenziamento per superamento del comporto

18.03.2021 | Pubblicazioni

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di Annalisa Rosiello, luglio 2013

Premessa

A distanza di oltre un anno dall’entrata in vigore della Legge n° 92 del 28 giugno 2012 (c.d. Legge Fornero) è possibile svolgere alcune considerazioni in merito all’applicazione delle regole processuali in essa contenute, specialmente per quanto riguarda l’impatto molto negativo sui lavoratori vittime del lavoro malato (mobbing, straining, stress lavoro correlato, molestie sessuali,mobbing di genere, ecc.) e in generale sui diritti dei lavoratori.

Si ritiene importante fare questo intervento per far comprendere che – benché spesso si parli di “articolo 18” in termini sostanziali (conseguenze del licenziamento, reintegratorie e/o risarcitorie) – per gli addetti ai lavori e specialmente per chi opera a difesa del lavoratore i guasti maggiori della c.d. Legge Fornero si registrano in larga misura nelle interpretazioni restrittive (a volte persino arbitrarie) della norma processuale.

Le considerazioni che andremo a svolgere relativamente al processo, tratte in prevalenza dallo spazio di osservazione di chi scrive, ovvero il Foro di Milano, sono valide per i lavoratori e le aziende che – rispettivamente – sono occupati in, od occupano oltre 15/60 dipendenti. E’ l’ambito, rimasto praticamente invariato, dell’ex tutela reale ora meglio definita come semi-reale o reale affievolita (in pratica: non più reale, salvo che si tratti di licenziamenti discriminatori).

Anticipazione e sintesi delle criticità processuali (ad impatto sostanziale)

Nel presente contributo e in contributi successivi si approfondiranno le criticità principali legate al processo. Qui di seguito si formulano, per punti, delle anticipazioni, premettendo che per ragioni di brevità, nel presente contributo verranno sviluppate quelle relative al licenziamento per superamento del periodo di comporto.

E dunque ecco le criticità:

1) Nei casi di “lavoro malato” il lavoratore si trova spesso a dover impugnare un licenziamento intimato (in molti casi) per superamento del periodo di comporto, e quindi si aspetterebbe un accertamento sì rapido ma comunque pieno sul suo caso, anche nella prima fase per così dire “sommaria”. Ma così non è (molti giudici, come si dirà, nella prima fase si fermano spesso alla “mera conta” dei giorni di malattia). 2) Nei casi di “lavoro malato” il lavoratore, oltre ad impugnare (stragiudizialmente prima e poi giudizialmente) il licenziamento, si trova quasi sempre nella condizione di poter rivendicare il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali. Ma non può farlo (con un unico atto, deve depositarne due distinti). 3) E ancora: il lavoratore si trova spesso nella situazione in cui è dipendente di un’azienda che occupa meno di 15 dipendenti, ma può far valere una condizione di discriminazione (mobbing o straining di genere, età, disabilità, ecc.). Ebbene: no, non può farlo (con un unico atto: anche in questo caso deve depositare almeno due distinti atti: un ricorso Fornero per chiedere l’applicazione della tutela reale piena, un ricorso ex art. 414 c.p.c. per chiedere, in via subordinata, la tutela obbligatoria e, nel medesimo o in un ancora distinto ricorso ex art. 414 c.p.c., rivendicare anche i danni). 4) E appresso: il lavoratore quando risulta soccombente nella fase dell’urgenza si aspetterebbe che la fase di opposizione venga trattata da un giudice (persona fisica) diversa. Ma anche questo non è. Il giudice dell’opposizione (in molti Tribunali, tra cui quello di Milano) è sempre lo stesso! 5) Stanno vertiginosamente aumentando i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che, in realtà, mascherano discriminazione (principalmente per età, ma anche per aderenza sindacale, disabilità, genere, ecc.); il lavoratore, in questi casi, è stretto tra le difficoltà probatorie della discriminazione e le difficoltà processuali già esposte; 6) Tutto questo piatto è per così dire “condito” da un’affannosa corsa contro il tempo per depositare l’atto (180 giorni dall’impugnazione stragiudiziale), per l’eventuale opposizione (30 giorni), ecc., tempo che – se rapportato alle situazioni umane, spesso di difficoltà e sofferenza, è evidentemente insufficiente e inadeguato; ed inoltre è completato dall’onerosità del processo (per ogni atto, incluse le opposizioni, occorre pagare il contributo unificato se il reddito del nucleo familiare eccede la soglia degli euro 32.298,33).

Veniamo dunque ad esaminare una ad una queste criticità processuali, che hanno un impatto piuttosto devastante sulle tutele, sui diritti e sulle finanze del lavoratore.

1) Casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto e “prassi” del rigetto in prima fase.

E’ orientamento giurisprudenziale costante e condiviso che in ipotesi di superamento del periodo di comporto “le assenze del lavoratore per malattia non giustificano (…) il recesso del datore di lavoro ove l’infermità sia, comunque, imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro – in dipendenza della nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro, che abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme”.

Si ritiene dunque di non potere condividere l’orientamento di merito emerso secondo il quale, nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto soggiacente al nuovo rito Fornero, l’unica condizione di legittimità del recesso consista nel superamento del numero di giorni di assenza per malattia previsto dal contratto collettivo. In altri termini, in parecchi casi, non viene svolta indagine alcuna sulla malattia e le sue origini ma ci si attiene – appunto – al “dato contabile” del superamento dei giorni previsti contrattualmente. Altre volte si abbozza una motivazione più articolata e volta ad escludere l’an (mobbing, straining, ecc.) sulla base degli atti senza un minimo di approfondimento in sede di istruttoria e senza una Consulenza medica. In pratica si arriva a respingere il ricorso (che peraltro potrebbe legittimamente essere estremamente più snello nei contenuti rispetto ad un ricorso 414 c.p.c., dovendosi sviluppare sulla base delle previsioni di cui all’art. 125 c.p.c.) affermando che dallo stesso non si evincono tutti gli elementi delle fattispecie vietate (specialmente del mobbing).

Ed invece non si può ritenere che solo un accertamento documentale sull’effettivo superamento del termine contrattuale di conservazione del posto di lavoro (quindi di fatto solo sul computo dei giorni di assenza) sia compatibile con la fase “sommaria” o comunque con l’attuale prima fase del rito: argomentando in questo modo si arriverebbe alla situazione, certamente paradossale e contraria anche allo spirito ispiratore della Legge 92 e di un rito che vuole essere improntato a celerità, per cui la fase successiva e meramente “eventuale” di impugnazione dell’ordinanza diventerebbe giocoforza altrettanto “necessaria” per vedere soddisfatto un pieno diritto all’accertamento dei fatti da cui è derivato il licenziamento.

Limitare l’accertamento del licenziamento – sulla base di una lettura estremamente restrittiva presupposto della “indispensabilità” degli atti istruttori – al dato documentale ed oggettivo della sola circostanza dell’avvenuto decorso dei termini di comporto (e quindi ricostruire la fattispecie di legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto al solo computo numerico dei giorni di assenza per malattia, senza verificare i motivi sottostanti che hanno condotto a tale dato oggettivo) o, peggio, ad una mera verifica dell’an sulla base dell’atto (per sua natura, come abbiamo detto, sintetico), viola pesantemente le aspettative di giustizia ed espone il lavoratore a spese ingiustificate. Siamo in presenza di un rischio reale che siffatte interpretazioni si traducano nella sostanza in una impossibilità per il lavoratore ad ottenere tutela giudiziale piena e nel rischio che lo stesso abbandoni la causa. Era questa l’intenzione del legislatore?

Diversamente, una lettura costituzionalmente orientata della norma in questione consente anche nella fase sommaria (cioè quella che si conclude con ordinanza del Tribunale) l’assunzione degli atti di istruzione indispensabili per l’accertamento, quali interrogatorio delle parti, informatori, testimoni e in ipotesi anche di una CTU volta ad accertare il nesso causale tra condotte e patologia. Né la necessaria maggiore celerità del procedimento può diventare un ostacolo ad una cognizione piena dell’organo giudicante.

Diversamente, il Giudice potrà evitare di demandare ad un proprio perito l’accertamento della malattia da cui è derivato il superamento del comporto nel momento in cui vengano allegate e provate le circostanze sia mediche, sia relative alle condizioni di lavoro e ciò sulla base degli argomenti e dei documenti forniti e prodotti.

E dunque, nelle ipotesi in cui non si sia di fronte ad una mera contestazione del computo dei giorni di assenza o del loro criterio di imputazione (ad esempio, se infortunio o malattia), bensì si sta affermando imputabilità delle assenze a condotte scorrette del datore di lavoro, l’accertamento deve essere compiuto con riferimento all’idoneità di tale condotta datoriale a determinare, con nesso causale certo, la patologia da cui è derivato il superamento del comporto.

Di conseguenza, a fronte della sussistenza del nesso causale, il periodo di comporto deve ritenersi essere stato superato per colpa, in tutto o in parte, del datore di lavoro, privando così il licenziamento della giustificazione oggettiva precostitituita nell’art. 2110 c.c. con necessità (e diritto) di vedere accertate queste condizioni anche nellafase sommaria.

Contrariamente a queste valutazioni di buon senso, gli esiti delle cause di licenziamento legati a fatti di mobbing e dintorni è spesso sfavorevole nei casi di licenziamento per superamento del comporto dovuto a malattia, almeno in prima fase, per le motivazioni sopra sintetizzate. E così il lavoratore si trova a dover sopportare almeno due processi (quello urgente e quello di opposizione) e spesso tre (dato che il giudice dell’opposizione è lo stesso dell’urgenza l’esito è quasi sempre scontato, quindi occorrerà reclamare in corte d’appello) per ottenere le sue ragioni.

Reputiamo questa situazione altamente lesiva, e auspichiamo in una rivisitazione dell’orientamento giurisprudenziale fino ad oggi prevalso.

Fra le tante, Cass., 7 aprile 2003, n. 5413; Cass., 7 aprile 2011, n. 7946.

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