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Legge 104/1992 – L’orientamento “punitivo” delle recenti sentenze della Corte di Cassazione

19.03.2021 | Pubblicazioni

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di Alessandra Maino, dicembre 2015

Premessa

La Cassazione, in due recenti sentenze – nn. 4984/2014 e 8784/2015 – si è espressa ritenendo legittimo il licenziamento disciplinare irrogato dal datore di lavoro in caso di utilizzo – reputato scorretto – dei permessi ex art. 33 L. 104/1992 (Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”) da parte del dipendente.

La Suprema Corte, nella prima delle sentenze richiamate, si è (anche) pronunciata nel senso di ritenere ammissibili e legittimi i controlli del datore di lavoro svolti attraverso agenzie di investigazione finalizzati ad accertare l’effettività e le concrete modalità di fruizione dei permessi. Si afferma in particolare al riguardo che “il controllo, demandato dal datore di lavoro ad un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio, da parte di un dipendente, dei permessi ex art. 33 legge 5 febbraio 1992, n. 104 (contegno suscettibile di rilevanza anche penale) non riguarda l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa, sicché esso non può ritenersi precluso ai sensi degli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori.

Nella sentenza n. 8784/2015, e relativamente al piano più sostanziale, la Corte ha confermato la legittimità del licenziamento di un lavoratore che aveva usufruito del permesso 104 per l’intera giornata ma si era assentato per circa due ore, la sera, per recarsi ad una festa. Si afferma al riguardo che “il comportamento del lavoratore non sarebbe meno grave per il fatto che per una parte si è divertito e per l’altra parte ha assistito alla madre; ciò che rileva è che se anche così fossero andate le cose comunque ha usufruito di una parte di questo permesso per finalità diverse da quelle a cui il permesso mira“.

Sulla scorta di tale impostazione, che si reputa punitiva e ingiusta per i motivi che verranno innanzi spiegati, sempre più spesso i datori di lavoro si “dedicano” a controlli molto invasivi del personale che fruisce dei permessi 104, interpretando in maniera eccessivamente restrittiva il concetto di assistenza previsto dalla legge e procedendo, in esito a contestazioni disciplinari, al licenziamento per giusta causa.

Escludendo tutti quei casi in cui appare manifesto l’utilizzo scorretto dei permessi da parte di chi ne beneficia (prolungamento vacanze e simili), occorre considerare che ci sono situazioni e condotte di dipendenti che dovrebbero essere valutate diversamente rispetto a quanto emerge dalle indagini investigative.

Ci si chiede, dunque, come ed entro quali limiti si possa considerare corretto l’utilizzo dei permessi previsti dalla legge ed è anche auspicabile un intervento chiarificatore da parte dell’Inps, ente erogatore del beneficio, finalizzato a precisare gli scopi dell’istituto in senso lato e le modalità di utilizzo del permesso.

In attesa di tale intervento, non possiamo far altro che analizzare la normativa e rilevare i punti più critici delle sentenze in esame in un contesto, come quello attuale, in cui è già in atto una drastica riduzione delle tutele dei lavoratori: il pericolo di licenziamenti arbitrari e discriminatori per far luogo a personale più giovane, meno “problematico” e meno garantito è molto elevato ed occorre ben monitorare queste vicende.

 

La corretta interpretazione del concetto di assistenza

 

Emerge dalle pronunce richiamate e anche dalla casistica ricorrente che le aziende fanno sempre più spesso ricorso a controlli sulle condotte dei propri dipendenti durante l’utilizzo dei permessi, al fine di accertare se e come il lavoratore presti assistenza al disabile.

Quando emerge dalle indagini investigative che il lavoratore non si sia trovato nei luoghi in cui – secondo l’azienda – avrebbe dovuto essere (la dimora del disabile), il datore di lavoro predispone la contestazione, cui segue generalmente il licenziamento per giusta causa.

Ciò che i datori in questi casi non considerano è che l’assistenza non si concretizza solo con la presenza fisica del lavoratore presso l’abitazione del disabile ma passa anche attraverso l’adempimento di tutte quelle attività accessorie (come fare la spesa, acquistare medicinali, svolgere ulteriori ed utili incombenze) che una persona affetta da grave disabilità non può compiere personalmente.

Il disabile potrebbe poi avere – ed anzi quasi sempre ha – la necessità di svolgere attività rieducative o di interesse sociale per preservare il proprio, già fragile, equilibrio psicofisico. Il lavoratore potrebbe quindi trovarsi nella condizione di dover accompagnare il disabile da amici o da parenti, gestendo le ore o i giorni di permesso in funzione delle esigenze della persona da accudire.

Ci si chiede allora, ad esempio, come l’investigatore possa provare che il lavoratore stesse facendo la spesa per se stesso e non per il disabile. Allo stesso modo, se il dipendente decidesse di portare il disabile a casa propria per assisterlo lì, l’investigatore documenterebbe che il lavoratore non si è mai recato presso l’abitazione del disabile; scatterebbe il licenziamento per presunto abuso di diritto quando invece l’assistenza è stata regolarmente prestata.

Emerge dunque un utilizzo invasivo dei poteri di controllo dei datori di lavoro, privo di effettiva valenza probatoria e dannoso per il dipendente che rischia la più grave delle sanzioni disciplinari a fronte di una rappresentazione della realtà non veritiera o comunque limitata.

 

La necessità di rispettare le esigenze psicofisiche del familiare assistente

Sempre in merito alle finalità della legge in esame, si ritiene altresì che le esigenze di assistenza e cura del disabile non possano pregiudicare le condizioni di salute di quest’ultimo e le sue esigenze di recupero.

E’ d’immediata comprensione che la situazione del lavoratore che assiste il disabile è molto complessa e consiste nell’avere in famiglia una persona che abbisogna di cure per ventiquattro ore al giorno e trecentosessantacinque giorni all’anno.

La persona che ha prestato assistenza al disabile deve poter recuperare le proprie energie psicofisiche. In particolare, e per fare solo un esempio, se il lavoratore ha assistito il disabile al termine della sua giornata lavorativa, quindi dopo oltre otto ore di lavoro e per tutta la notte, potrebbe aver bisogno di utilizzare le ore di permesso per riposare.

Purtroppo sul punto la giurisprudenza fino a questo momento non è d’aiuto, avendo stabilito nelle sentenze richiamate in premessa che il lavoratore che utilizza una parte dei permessi per finalità personali sia legittimamente sanzionabile.

Invece una corretta interpretazione della norma in esame, in armonia con le altre previsioni normative anche di matrice costituzionale (art. 32 Cost.), imporrebbe senz’altro una lettura meno restrittiva e punitiva.

 

La sproporzionalità dei licenziamenti disciplinari per l’utilizzo dei permessi “104”

 

Vi è infine un’altra questione rilevante che emerge dall’analisi di numerosi casi da noi affrontati: la sproporzionalità dei licenziamenti disciplinari irrogati per l’asserito illecito utilizzo dei permessi.

Nell’ambito di tale casistica emerge che un lavoratore al quale è contestato di aver usufruito dei permessi per finalità proprie venga considerato assente ingiustificato, magari “solo” per 6-8 ore di – reputata – assenza ingiustificata.

Al riguardo si ricorda che i contratti collettivi stabiliscono che il datore possa licenziare il dipendente laddove rimanga assente ingiustificato per un certo numero di giorni (di norma tre o più). Si assiste invece a licenziamenti anche di fronte a poche ore di scoperto.

Molti dei licenziamenti disposti nei confronti di quanti sono beneficiari della Legge 104 sembrano dunque avere anche profili di sproporzione e indici di discriminatorietà; profili che potranno e dovranno essere attentamente valutati andando ad accertare, nel concreto, se la condotta del familiare assistente, che ha utilizzato una parte dei permessi per ristorarsi, fosse grave a tal punto da compromettere irrimediabilmente vincolo fiduciario.

Conclusioni

Di fronte a interpretazioni giurisprudenziali come quelle in esame, che ad avviso di chi scrive stanno travisando le finalità della legge e giustificando controlli del datore di lavoro con modalità estremamente invasive, si auspica dunque un intervento chiarificatore da parte dell’Inps e comunque pronunce giudiziali maggiormente in linea con i principi qui esposti.

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