di Annalisa Rosiello, settembre 2014
Premessa
Come già in precedenza hanno fatto altri governi, anche quello attualmente in carica sta discutendo di apportare modifiche strutturali all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’ultima riforma, giova ricordarlo, risale a soli due anni fa: si tratta della riforma c.d. Fornero (l. 28 giugno 2012, n° 92) intervenuta pesantemente sia sul processo sia sulle conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti in stabilità c.d. reale. Trattasi dell’apparato sanzionatorio previsto per il caso di recesso dal contratto a tempo indeterminato in realtà datoriali con oltre 15/60 dipendenti.
Relativamente al piano processuale di tale riforma, in un precedente contributo si è detto come le difficoltà e restrizioni interpretative legate al nuovo rito abbiano – nei fatti – pesantemente condizionato l’esercizio dei diritti e i diritti stessi dei lavoratori. V. A. Rosiello, Il processo Fornero e i diritti (offesi) dei lavoratori vittime del lavoro malato (e non solo di quelli).
Relativamente al piano sostanziale, ci si limita in questa premessa ad affermare come la legge n° 92/2012 abbia già fortemente ridimensionato le conseguenze del licenziamento, sostituendo spesso il diritto alla reintegrazione con un mero indennizzo economico. E ciò sia in (alcuni) casi di licenziamento non assistito da giusta causa o giustificato motivo soggettivo sia in (molti) casi di licenziamento non assistito giustificato motivo oggettivo.
Ebbene, pensiamo che sia difficilmente confutabile la considerazione che il nuovo rito da una parte e l’indebolimento complessivo dell’apparato sanzionatorio dall’altra abbiano reso nel complesso meno rischioso per i datori di lavoro procedere ad un licenziamento: anche laddove il licenziamento sia basato su motivazioni “deboli” la reintegrazione costituisce una possibilità (talvolta remota) e non – come in precedenza – una certezza.
I licenziamenti individuali: situazione attuale
Volendo massimamente sintetizzare la normativa esistente si rammenta che:
– i datori di lavoro che occupano meno di 15/60 dipendenti (che sono la stragrande maggioranza, nel nostro paese) anche se licenziano ingiustamente un lavoratore, rischiano di pagare solo e sempre un’indennità fino a 6 mensilità di retribuzione;
– i datori di lavoro che licenziano un dirigente senza “giustificatezza” rischiano di pagare solo e sempre un’indennità stabilita dalla contrattazione collettiva.
– l’unica eccezione a tali “regole” riguarda il licenziamento discriminatorio o illecito, che comporta – ove dimostrato (casistica favorevole al lavoratore: molto scarsa) – l’applicazione della tutela reale piena stabilita dal primo comma dall’art. 18, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda ed anche ai dirigenti;
– i datori di lavoro che occupano, invece, più di 15/60 dipendenti, se licenziano ingiustamente un lavoratore rischiano la reintegrazione e un’indennità massima di 12 mensilità se attuano un licenziamento basato su motivazione soggettiva “insussistente” o sproporzionata, ovvero su una motivazione oggettiva caratterizzata da “manifesta insussistenza” del fatto (in questo caso, peraltro, il rischio di reintegra è solo eventuale dato che il giudice “può” e non “deve” applicare necessariamente la sanzione reintegratoria);
– sempre i datori di lavoro che occupano più di 15/60 dipendenti rischiano “nelle altre ipotesi” di licenziamento ingiustificato, solo un’indennità da 12 fino ad un massimo di 24 mensilità.
– ed ancora, sempre i medesimi datori di lavoro, in caso di violazione formale e di conseguente inefficacia del licenziamento, rischiano solo un’indennità da 6 fino ad un massimo di 12 mensilità.
Nel caso in cui il licenziamento sia corretto e fondato, vale la pena ricordare anche questo, il datore di lavoro non va incontro a nessuna sanzione, né economica né di altro tipo.
E’ dunque evidente, sempre seguendo la logica della massima semplificazione, come la reintegrazione costituisca nei fatti, oggi, un “problema” marginale, dal momento che molti lavoratori (i pochi rimasti a tempo indeterminato) sono dipendenti di realtà piccole e che, anche in presenza di grosse realtà, la reintegrazione è un’eventualità presente ma, nei fatti, alquanto rara anche per motivazioni che ci accingiamo a spiegare.
I licenziamenti individuali: Le proposte di riforma
“I casi che vengono risolti sulla base dell’art. 18 sono circa 40.000 e per l’80% finiscono con un accordo. Dei restanti 8000 solo 3000 circa vedono il lavoratore perdere”. Tali dati sono stati diffusi recentemente dalla Presidenza del Consiglio.
Ora, se – stando a questi dati – i lavoratori reintegrati (in un anno?) sono circa 5000 su 40.000, quali sono le ragioni che inducono ad indebolire le tutele per i lavoratori che ancora le hanno? Oggi tali tutele, è evidente, rivestono in pratica un effetto solo deterrente rispetto a condotte datoriali manifestamente scorrette.
E ancora: in assenza di tale (pur debole e lacunoso, come si è visto) deterrente quale sarà la protezione del lavoratore che intende affermare i propri diritti (retributivi, sindacali, morali, ecc.)? conosciamo bene la difficile prova da fornire in caso di licenziamento discriminatorio o ritorsivo, una prova quasi diabolica che scoraggia spesso l’azione o la prosecuzione del giudizio.
Ed inoltre: intanto si firmano accordi attestati su livelli accettabili (accordi che si raggiungono a fronte di un licenziamento che potrebbe essere giudicato scorretto) in quanto ancora sussiste (seppure marginalmente) il rischio di una reintegrazione; caduto quello i lavoratori – che specie in questo periodo incontrano difficoltà enormi a reperire rapidamente una nuova e dignitosa occupazione e non godono, per contro, di un sistema di provvidenze che possa sostenerli adeguatamente in caso di disoccupazione – nella migliore delle ipotesi dovranno accontentarsi di un accordo al ribasso.
Tutto questo non restituisce né ragione, né giustizia rispetto ad un torto subito ed inoltre rischia di condannare i lavoratori (giovani e anche meno giovani ma per i quali la pensione costituisce ancora un miraggio), al precariato perenne se non all’esclusione sociale e alla povertà.
Per queste e molte altre ragioni ”il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio” – come previsto dal DDL 1428/2014 licenziato nei giorni scorsi dalla Commissione Lavoro in Senato -appare lesivo dei diritti fondamentali dei lavoratori e si auspica venga modificato.