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Dal Blog Area Pro labour de ilfattoquotidiano.it, curato dallo Studio: Smartworking, non basta spostare l’ufficio a casa. Bisogna puntare alla produttività, 22 maggio 2020

16.03.2021 | News

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Di Barbara Pigoli *

 

Anche il recente Dpcm del 26 Aprile promuove il massimo utilizzo di modalità di lavoro “agile”, laddove possibile.

Le organizzazioni devono imparare a misurarsi con lo smart working, con l’orario di lavoro flessibile o con il telelavoro, senza perdere in produttività ed efficienza.

Mentre la digital transformation non è un progetto, ma è un avvicinamento continuo ad una tecnologia che si evolve, fare “smart working” significa imparare a lavorare per progetti, e introdurre strumenti condivisi per la pianificazione aziendale.

Il modello di gestione “smart” è focalizzato sul raggiungimento di obiettivi produttivi concordati, e non sulla presenza dei lavoratori in azienda. In molte imprese padronali tutti sono in grado di fare un po’ di tutto, e la capacità di navigare a vista costituisce ancor oggi fattore premiante per l’occupabilità.

Giocolieri nel creare ridondanze e abili nel risolvere le latenze generate per garantirsi il plauso della proprietà, ancora troppi lavoratori 2.0 giocavano sull’empatia per il proprio successo professionale, con la complicità di un management che non era in grado di delegare e non sapeva lavorare per obiettivi. Il che non aiutava certo a sostenere ed incrementare la produttività aziendale.

La delicata Fase 2 richiede la capacità di superare questo modello, e di disporre di nuove competenze per gestire team di lavoro a distanza, individuando obiettivi specifici, misurabili, realistici e definiti nel tempo. Richiede manager con capacità di delega, capacità di utilizzare strumenti adeguati al monitoraggio delle attività e alla valutazione delle performance, ma soprattutto capacità di motivare gruppi di lavoro geograficamente dislocati. Vediamo punto per punto come siamo messi:

  • I processi di allineamento nelle nuove organizzazioni molto frammentate sono inizialmente meno efficienti, poiché i lavoratori tendono a lavorare nello stesso modo. Paradossalmente, per avere più autonomia serve molta più disciplina, dal momento che i processi di allineamento informali messi in atto in presenza non ci sono più.
  • Le imprese devono imparare a riconoscere le competenze che ogni lavoratore porta all’organizzazione, in termini di funzionalità al proposito dell’azienda e non più al ruolo gerarchico occupato, eliminando le distorsioni generate da un’organizzazione gerarchica. Passaggio molto delicato perché consentirebbe di riconoscere e valutare i risultati della produttività individuale, mettendo in crisi il meccanismo di pesatura dei ruoli, comportando un legame con le dinamiche salariali e la conseguente legittima richiesta di sistemi di incentivazione.
  • Riguardo alla disponibilità di mezzi digitali adeguati, i lavoratori hanno solo l’imbarazzo della scelta. Anche i meno digitalizzati sono abilitati, con il solo pc ed una connessione ad internet, ad utilizzare piattaforme più o meno complesse per riunioni e conferenze a distanza. Ma non sempre i manager hanno le competenze adeguate, spesso anche in ragione dell’età non più giovane. Servono programmi di mentoring inverso: chi in azienda conosce come utilizzare i supporti digitali, lo insegna ai capi.
  • manager devono imparare a smettere di dare ordini, e iniziare a lavorare per obiettivi condivisi. Devono imparare a definire risultati concreti, e indicatori di prestazione in grado di monitorare gli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione. Indicatori semplici come il volume della produzione rispetto ai dipendenti, il fatturato per dipendente, il margine operativo lordo per prodotto, la percentuale di rispetto dei tempi di consegna o la riduzione dei tempi di lavorazione.

In sintesi, remote working non significa spostare lo stesso modo di lavorare dall’ufficio al contesto casalingo: cambia completamente l’esperienza dei dipendenti, e con essa processi e procedure di lavoro. I meccanismi di controllo debbono essere ripensati, e non possono essere introdotti modelli normativi rigidi con la pretesa che siano efficaci per tutte le organizzazioni. Anche il sistema retributivo richiede una radicale revisione, e le prestazioni riconosciute e ricompensate in modi diversi.

 

Laurea Magistrale in Scienze Politiche (Università degli Studi di Milano) e Master in Lobbying & Public Affairs (Università LUMSA di Roma). Sono da sempre impegnata nel sistema della formazione continua e delle politiche attive per la formazione (governance del sistema, progettazione ed erogazione), e per 11 anni ho diretto un ente di formazione del sistema confindustriale (FormaMec ANIMA). Attualmente opero come libera professionista. Progetto Piani formativi e collaboro attivamente con Parti Sociali e associazioni di rappresentanza nell’articolazione della domanda formativa delle imprese e dei lavoratori. Relatrice a convegni istituzionali in qualità di esperta in processi formativi e corretto utilizzo dei Fondi interprofessionali, scrivo articoli, pubblicazioni ed erogo consulenze e docenze specialistiche sui processi di governance che caratterizzano i Fondi interprofessionali, la formazione continua e la bilateralità.

Qui il contributo pubblicato su ilfattoquotidiano.it, area pro labour.

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