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Rassegna giurisprudenziale 13 settembre 2017, a cura di Monica Serra

12.03.2021 | News

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– LICENZIAMENTO DISCIPLINARE –

Tribunale di Napoli, sezione Lavoro, sentenza 27 giugno 2017, Est. Dott.ssa Gabriella Marchese

Il Tribunale di Napoli, in una delle prime pronunce in tema di insussistenza del fatto “direttamente dimostrata in giudizio” nell’ambito della nuova disciplina dei licenziamenti introdotta dal Jobs Act, ha sancito il principio secondo il quale può essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro quando l’insussistenza del fatto risulti in modo chiaro, ma anche con prova indiretta.

Nel caso di specie, il giudice ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento comminato a un lavoratore cui erano state contestate  una serie di assenze ingiustificate dal lavoro, e che aveva invece sostenuto di essere stato invitato ad astenersi dal lavoro dal proprio responsabile, motivo per il quale aveva anche comunicato all’azienda la propria disponibilità alla ripresa del servizio.

Il giudice, soffermandosi sull’interpretazione dell’art. 3 del D.lgs. n. 23/2015 che prevede che in caso di licenziamento per motivi disciplinari la reintegrazione possa essere disposta “esclusivamente nelle ipotesi (…) in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, ha affermato che:

– la tutela indennitaria deve trovare applicazione nel caso in cui la prova del fatto sia equivoca o contraddittoria;

– la tutela reintegratoria deve invece essere prevista in tutti i casi in cui risulti dimostrata l’insussistenza del fatto, anche se ciò avviene con prova indiretta o tramite ragionamenti logico-deduttivi: la parola “direttamente” utilizzata dalla norma, infatti, non può significare che la prova indiretta può offrire minore certezza di quella diretta.

– CONTRATTI A TERMINE NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE –

Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ordinanza 14 luglio 2017 n. 17523

Il principio recentemente consolidatosi nella giurisprudenza di Cassazione in tema di contratti a termine nella scuola pubblica è quello secondo cui anche i lavoratori a termine hanno diritto alla progressione stipendiale per anzianità prevista per i colleghi assunti a tempo indeterminato.

Tale statuizione consolida le recenti pronunce della Corte in applicazione del divieto comunitario di discriminazione tra i contratti di lavoro a termine e i contratti stabili, e secondo le quali non può invece trovare applicazione la disciplina nazionale per cui lo sviluppo economico retributivo per anzianità di servizio deve essere riconosciuto solamente ai lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ordinanza 12 luglio 2017 n. 17174

Secondo la Corte di Cassazione, in caso di nullità del termine apposto a un unico contratto di lavoro con la Pubblica Amministrazione non è possibile applicare per la determinazione del risarcimento del danno l’art. 32 della legge n. 183/2010, ma il dipendente deve anzi provare il danno che lamenta di aver subito.

In proposito, a seguito di quanto statuito dalla Corte a SS.UU. con la sentenza n. 5072/2016, in materia di risarcimento del danno ex art. 36, comma 2, del D.lgs. n. 165/2001 per illegittima apposizione del termine, si applica l’art. 32 della legge n. 183/2010 solo nel caso di plurimi contratti a termine illegittimi; al contrario, nel caso di un unico contratto devono applicarsi le regole del diritto comune, secondo le quali il lavoratore è tenuto a provare l’intero danno subito.

– CLAUSOLA DI RISOLUZIONE AUTOMATICA DEL RAPPORTO DI LAVORO –

Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ordinanza 29 agosto 2017 n. 20499

Con l’ordinanza in oggetto la Suprema Corte si è pronunciata sulla clausola di risoluzione automatica del rapporto di lavoro al raggiungimento dell’età pensionabile: tale clausola è da ritenersi legittimamente operativa in caso di assenza dell’opzione del lavoratore al raggiungimento dell’anzianità contributiva massima e comporta, peraltro, la perdita del diritto al periodo di preavviso e alla relativa indennità sostitutiva.

Secondo la Corte il venir meno di tali diritti trova la sua ragion d’essere nella ratio stessa del preavviso, che è quella di tutelare il lavoratore dall’improvviso disagio economico conseguente alla perdita del posto di lavoro, consentendogli la ricerca di una nuova occupazione.

Tuttavia, quando da un reddito di tipo lavorativo vi sia un diretto passaggio a un reddito di tipo pensionistico, allora viene meno la ragione di assicurare al lavoratore il periodo o l’indennità di preavviso.

– ASSEGNAZIONE A MANSIONI SUPERIORI –

Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ordinanza 8 agosto 2017 n. 19725

Recentemente la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un caso di reiterate assegnazioni del lavoratore a parziali, abituali e sistematiche mansioni superiori, rendendo così due principi in base ai quali valutare se sussiste il diritto del lavoratore al riconoscimento del livello di inquadramento superiore:

a) la mera ripetizione delle assegnazioni non è sufficiente e, anzi, queste devono costituire un programma di lavoro ben definito (nel caso da cui trae origine la pronuncia, infatti, a molteplici dipendenti veniva chiesto di sostituire – a turno – due dipendenti di qualifica superiore che erano stati distaccati a tempo indeterminato presso un altro servizio);

b) nel caso in cui il lavoratore o i lavoratori interessati si trovino a svolgere mansioni promiscue, nell’individuazione delle mansioni prevalenti non deve essere tenuta in considerazione la mera proporzione tra queste, ma deve darsi rilievo alla mansione più significativa sul piano professionale se questa non è svolta in via sporadica o occasionale.

– VIOLAZIONE DELLA PRIVACY DEL LAVORATORE –

Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 18 luglio 2017 n. 17723

La presente sentenza trae origine dal ricorso proposto da un lavoratore licenziato in esito a un procedimento disciplinare e che lamentava – in relazione alle indagini che hanno portato alla sanzione comminata – una violazione della sua privacy.

Sul punto l’azienda chiamata in causa, avendo rilevato una serie di irregolarità nei dati trasmessi da un proprio dipendente che aveva la mansione di accertare presso le unità locali il rispetto delle direttive commerciali della società, aveva incaricato un’agenzia investigativa di compiere delle indagini al riguardo, poi qualificate dai giudici come indagini di tipo difensivo.

In sede di giudizio, il lavoratore si era difeso da quanto sostenuto dall’azienda adducendo l’invasività delle indagini svolte sul suo conto e, in esito, la violazione della sua privacy.

La Corte, che ha di fatto disatteso la prospettazione presentata dal lavoratore, ha comunque precisato che la violazione della privacy del lavoratore nel corso di indagini difensive non comporta solamente il risarcimento dell’eventuale danno ma anche l’inutilizzabilità processuale e, ancor prima, disciplinare dei dato così ottenuti.

Nel corso delle indagini difensive svolte dal datore di lavoro, infatti, questo non si deve solo attenere ai principi di proporzionalità e di aderenza all’oggetto di indagine e al suo scopo ma, ancor prima, al rispetto del “Codice della Privacy” ex d.lgs. n. 196/2003.

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