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Rassegna giurisprudenziale 31 maggio 2017, a cura di Monica Serra

12.03.2021 | News

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– SUBORDINAZIONE – 

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 aprile 2017 n. 9590.

La qualificazione del rapporto di lavoro operata dalle parti del contratto come collaborazione coordinata e continuativa non può essere considerata tratto dirimente per la determinazione della natura del rapporto di lavoro stesso in presenza di elementi fattuali che possano essere ricondotti ad indici della subordinazione. In particolare, indici di subordinazione possono essere rilevati nella previsione di un compenso fisso, di un orario stabile e continuativo, nel carattere delle mansioni svolte, nonché nel collegamento tecnico, organizzativo e produttivo intercorrente tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali.

– PATTO DI PROVA –

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 marzo 2017 n. 7801.

Al recesso dal patto di prova non si applica il regime delle decadenze di cui all’art. 6 l. 604/1966, così come modificato dall’art. 32 l. 183/2010, posto che ai sensi dell’art. 10 l. 604/1966 le norme sui licenziamenti individuali trovano applicazione nei confronti dei lavoratori assunti in prova solo nel momento in cui l’assunzione diviene definitiva.

Il recesso dal patto di prova, inoltre, non può essere ricompreso neanche nell’art. 32 l. 183/2010 tanto perché le ipotesi ivi previste sono tassative quanto perché la norma di chiusura che estende il regime delle decadenze “a tutti i casi di invalidità del licenziamento” è da intendersi in via esclusiva alle ipotesi di recesso unilaterale del datore di lavoro che sia già in essere o perfezionato.

Inoltre, una volta accertata l’illegittimità del recesso dal patto di prova – per il mancato esperimento per inadeguatezza della durata della prova o quando risulti il superamento della prova per inesistenza del motivo illecito – l’unica conseguenza è da rilevarsi nella prosecuzione della prova per il periodo di tempo mancante rispetto al termine prefissato, oppure il risarcimento del danno, dal momento che la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova non comporta che il rapporto di lavoro debba considerarsi costituito in modo stabile.

– MOBBING –

Tribunale Udine, sez. Lavoro, sentenza 17 marzo 2017 n. 51.

Secondo il Tribunale di Udine non si può propriamente parlare di mobbing se la condotta del datore di lavoro è diretta a danneggiare il dipendente.

La vicenda ha tratto origine dalla denuncia di un medico rispetto a una serie di condotte mobbizzanti, da parte del primario e della struttura, tra cui il mancato finanziamento di studi, la perdita di responsabilità di reparto, il mancato rinnovo di un incarico in chirurgia, il trasferimento ad altra unità, ecc.

Di contro, l’azienda ospedaliera evidenziava che ogni scelta era motivata dall’opportunità e dall’applicazione regolare delle norme.

Il tutto veniva suffragato anche dalle testimonianze dei colleghi che parlavano dei comportamenti del ricorrente tali da generare ormai un clima di sfiducia e conflitto irreversibile con tutti: da qui, i necessari interventi adottati dalla direzione sanitaria al fine di assicurare la concreta funzionalità della struttura e non certo tesi a danneggiare il medico.

Il Tribunale di Udine ha considerato convincenti queste tesi, così che nel caso di specie si devono obiettivamente escludere che “possano ravvisarsi gli estremi di una condotta vessatoria da parte del responsabile del reparto, suscettibile di essere ascritta nell’ambito del cd. ‘mobbing’, posto che l’illecito in esame può ritenersi sussistente solo “in quanto risulti che l’unica ragione della condotta datoriale era quella consistita nel procurare un danno al lavoratore, nel mentre bisogna escluderla in caso contrario, indipendentemente dall’eventuale prevedibilità ed occorrenza in concreto di effetti simili o altrimenti sovrapponibili”.

Per il Tribunale di Udine, infatti, il mobbing “rappresenta una specificazione del divieto – costituente canone generale dell’ordinamento giuridico e fondamento della exceptio doli generalis – di agire intenzionalmente a danno altrui, per cui devono necessariamente essere escluse dall’orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro”.

– DISCRIMINAZIONE PER ETA’ –

Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sesta sezione, sentenza 21 dicembre 2016 causa C-539/15.

L’art. 2, par. 1 e 2, della direttiva 2000/78/CE, la quale sancisce nell’ambito degli stati aderenti all’Unione Europea una generale parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che non osta ad un CCNL in base al quale a un impiegato, che benefici del computo dei periodi scolastici ai fini del suo inquadramento nel regime retributivo, si applichi un prolungamento del termine per passare dal primo al secondo livello di inquadramento contrattuale se tale prolungamento si applica a tutti gli impiegati che beneficiano del computo di tali periodi, inclusi, in maniera retroattiva, quelli che abbiano già raggiunto i livelli successivi.

– INFORTUNIO SUL LAVORO E INVALIDITA’ –

Corte di Giustizia dell’Unione Europea, terza sezione, sentenza 1 dicembre 2016 causa C-395/15.

La direttiva 2000/78/CE, la quale stabilisce un generale principio per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che se un lavoratore si trovi, per via di un infortunio sul lavoro, in una situazione di temporanea invalidità che ai sensi del diritto interno può essere definita di “durata incerta”, questo non comporta di per sé che la limitazione della sua ordinaria capacità lavorativa possa essere qualificata come “duratura” ai fini della definizione di handicap contemplata dalla direttiva, specie se letta alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata a nome della Comunità Europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio.

Tra i parametri che possono essere usati per qualificare una invalidità come duratura deve essere considerata, in particolare, la circostanza che, all’epoca del fatto asserito come  discriminatorio la menomazione del lavoratore non presentasse una prospettiva ben delimitata di superamento nell’arco di breve tempo o il fatto che tale menomazione potesse protrarsi in modo rilevante in epoca antecedente la guarigione.

– UNIONI CIVILI – 

Corte di Giustizia dell’Unione Europea, prima sezione, sentenza 24 novembre 2016 causa C-443/15.

La legislazione di matrice comunitaria deve essere interpretata nel senso che non può ritenersi sussistente una discriminazione fondata sull’età o sull’orientamento sessuale una normativa nazionale che, nell’ambito di un regime previdenziale professionale, subordini il diritto a una pensione di reversibilità per i partner registrati superstiti degli affiliati alla condizione di avere contratto l’unione civile prima del compimento dei 60 anni di età da parte dell’affiliato, mentre il diritto nazionale non consentiva allo stesso affiliato di contrarre un’unione civile prima di raggiungere tale limite di età.

Gli stati membri, infatti, sono liberi di prevedere o meno il matrimonio per persone dello stesso sesso o una forma alternativa per il riconoscimento legale della loro relazione.

– DDL AUTONOMI E PROVA DEL DECRETO INGIUNTIVO –

Disegno di legge 10 maggio 2017 n. 2233-B.

“Ddl autonomi”: la prova del decreto ingiuntivo è ora più agevole.

Tra le molteplici novità che ha portato con sé l’approvazione del “Ddl lavoratori autonomi”, diventato legge il 10 maggio 2017 e in corso di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, vi è anche una modifica apportata al codice di procedura civile all’art. 634, ossia la norma che si occupa di disciplinare la prova scritta da poter porre idoneamente a fondamento di un decreto ingiuntivo.

Sino ad oggi, infatti, tale articolo prevedeva che per le prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano un’attività commerciale anche a persone che non esercitano tale attività potevano essere considerate prove scritte idonee a giustificare un’ingiunzione di pagamento anche gli estratti autentici delle scritture contabili di cui al codice civile, bollate, vidimate nelle forme di legge e regolarmente tenute, e gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie, tenute con l’osservanza di quanto per esse prescritto.

Il “Ddl autonomi” ha ampliato la portata di tale norma: nella nuova formulazione dell’articolo 634 c.p.c. si prevede che la possibilità di utilizzare anche le scritture contabili come prova scritta idonea ai fini dell’emissione di un decreto ingiuntivo non sia più prerogativa esclusiva degli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, ma si estenda anche ai lavoratori autonomi, così da ampliare per questi le possibilità di recuperare i propri crediti facendo ricorso al procedimento per decreto ingiuntivo ex art. 633 e ss. c.p.c

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